Kasia Smutniak da anni impegnata nell’elaborazione silente del lutto della perdita della sorella


Questo articolo in breve

Kasia Smutniak torna al cinema, protagonista Silvio Soldini, uscito l’11 novembre nelle sale distribuito da Vision. S’intitola 3/19 come il numero con cui viene indicato il giovane immigrato morto nell’anonimato. Fatale è stato un incidente causato, involontariamente, da lei, nel ruolo di una rampante avvocatessa. Un film che l’ha toccata nel profondo.


Kasia, chi è il tuo personaggio? «Sono Camilla, avvocatessa di successo e una figlia ormai grande, la cui vita viene sconvolta in una notte di pioggia a Milano. Un incidente stradale, di cui forse è responsabile, la coinvolge in un’indagine su un giovane immigrato morto nell’anonimato, che la porterà molto lontana dai luoghi e dai paesaggi che è abituata a frequentare. Al suo fianco in questa strada misteriosa e incerta, c’è Bruno, direttore dell’obitorio, con cui Camilla, mentre cerca di ricostruire la vita di un estraneo, scopre sé stessa.

La sua vita potrebbe, o vorrebbe, andare avanti come se nulla fosse accaduto, in fondo si è solo rotta un polso. Invece piano piano dentro di lei si apre una crepa. Come una falda d’acqua sotterranea che si fa spazio nel cuore e nella mente. Niente sarà più come prima.

Cosa ti ha affascinato e lasciato a livello personale questa storia e il tuo ruolo? «Che mentre cerca di ricostruire la vita di un estraneo, scopre sé stessa. Si è rifugiata nel lavoro, che non le lascia tempo per sé stessa, la figlia e la famiglia.

E da anni impegnata nell’elaborazione silente del lutto della perdita della sorella. Nel farlo riscopre sé stessa. Un messaggio molto spirituale. Camilla è una donna di successo, un avvocato, si sente realizzata. Il film racconta il mondo dell’alta finanza, degli avvocati corporate nelle multinazionali di una Milano proiettata verso il futuro. Grandi grattacieli e uomini d’affari, tanti soldi che girano. Un mondo raccontato poco e con cliché.

Mi affascinava il tema del cambiamento, con una macchina da presa così vicina al mio personaggio, permettendo a chi guarda di vivere in maniera intima quello che le accade. Per me è stata un’esperienza intensa, che ho capito in pieno strada facendo. Ha provocato dentro di me cambiamenti irreversibili, ha toccato temi che conosco bene, come l’elaborazione del lutto  il 28 giugno  2010 il suo compagno Pietro Taricone, padre di sua figlia Sophie, morì tragicamente, proprio davanti ai suoi occhi, in seguito a un incidente di paracadutismo, ndr) e la riflessione sull’importanza di prendersi cura degli altri e di noi stessi.

Al centro vi è l’importanza del sapersi mettere in ascolto dell’altro. Undici anni fa ho creato l’associazione Pietro Taricone Onlus e abbiamo costruito una scuola in Nepal. Un gesto piccolo qua, ma che lì ha già cambiato molte vite. Le persone muoiono per le politiche sbagliate e disumane e siamo responsabili anche noi. Ci dobbiamo prendere cura di quelle morti invisibili per ritrovare la nostra umanità. Manca l’elaborazione del lutto collettivo».
«Preferisco arrivare sul set senza sapere esattamente tutto».

Come ti sei preparata a questo ruolo? «Non seguo metodi, mi affido alla visione del regista e alla conoscenza di quello che faccio, ma voglio arrivare sul set anche senza sapere esattamente tutto, senza necessariamente spiegare a sé stessi quello che si fa. Mi piace essere plasmata e lasciarmi guidare dall’istinto e dalle emozioni. Mi hanno influenzato gli incontri fatti con le avvocatesse che ho conosciuto, donne molto forti, che hanno dovuto fare grandissime rinunce. Lontane da me, che nella vita ho fatto un percorso diverso, rinunciando a poche cose per fare carriera. La famiglia è al centro della mia vita. Ogni attore porta sul set il proprio bagaglio emozionale è così è stato anche per me».


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