SPERANZA CONCRETA I risultati terapeutici convincenti riguardano un piccolo gruppo di farmaci dai nomi impronunciabili: ipilimumab, nivolumab, pembrolizumab, avelumab… Per un numero limitato di malattie, e per il 30-40 % dei pazienti, questi farmaci fanno già una grande differenza (per capire come funzionano vedi disegni a destra). Lo testimoniano le storie di tante persone con una diagnosi che fino a pochi anni fa equivaleva a una sentenza di morte, come quelle raccolte in Il cancro ha già perso, scritto da Maio col giornalista Giovanni Minoli (Piemme): sono vive e in salute a distanza di anni. Per molti altri tipi di tumore, tra cui un big killer come il cancro del colon, o per un tumore di solito non troppo aggressivo, ma molto comune, come quello della prostata, l’immunoterapia non ha invece portato finora grandi cambiamenti.
Però ha tracciato una direzione e aperto diverse strade di studio. L’idea di combattere il cancro sfruttando le difese che normalmente l’organismo utilizza per liberarsi di altri tipi di nemici, come i virus e i batteri, ha una lunga storia. Costellata però da così tante false partenze e insuccessi da guadagnarsi la fama, tra gli addetti ai lavori, di una strada che non portava da nessuna parte. All’inizio del secolo scorso, a ipotizzare questo metodo fu il microbiologo tedesco Paul Ehrlich, padre della chemioterapia e premio Nobel per la Medicina nel 1908. Poi venne l’idea di usare alcuni batteri indeboliti per attivare la risposta del sistema immunitario contro i tumori. «I risultati incoraggianti c’erano. Solo che a un certo punto, oltre ai ricercatori, hanno iniziato a crederci anche le aziende. E medici e oncologi, che hanno sempre considerato l’attivazione del sistema immunitario poco fattibile, vedendo i risultati clinici hanno dovuto ricredersi», osserva Licia Rivoltini, responsabile dell’Unità di immunoterapia all’Istituto dei tumori di Milano.
FRENI DA SBLOCCARE Anche se l’idea iniziale di un vaccino universale anticancro si è rivelata assai più difficile del previsto da realizzare, ormai gli scienziati hanno abbastanza conoscenze molecolari su come il tumore riesce a sfuggire ai normali controlli dell’organismo da poter mettere a punto contromisure specifiche. In effetti, ormai si sa che «alcune cellule dell’immunità (in particolare i linfociti T e i macrofagi), in certi casi, non solo non svolgono il loro ruolo di difesa, ma al contrario aiutano lo sviluppo e la diffusione del cancro», spiega l’immunologo Alberto Mantovani nel suo libro Bersaglio mobile (Mondadori).
Si comportano cioè come veri e propri poliziotti corrotti. Le ricerche si sono così concentrate sul meccanismo di blocco e sblocco dei “freni” del sistema immunitario (il tumore trova il modo di bloccarlo, i farmaci devono invece sbloccarlo perché torni a fare il suo dovere). Molti laboratori in tutto il mondo sono al lavoro in questo fondamentale campo di ricerca e le scoperte più importanti finora ottenute hanno portato all’assegnazione, lo scorso ottobre, del Nobel per la medicina a Tasuku Honjo e James Allison. Sia lo scienziato giapponese sia l’americano, per strade indipendenti, hanno individuato due dei cosiddetti checkpoint presenti nella cellula, i “posti di blocco” che il tumore inganna. Agendo quindi su questi ultimi, le nuove cure riescono a restituire all’organismo la capacità di “vedere” il tumore e attaccarlo. Negli anni Novanta, Allison dimostrò che una proteina presente sui linfociti T, chiamata CTLA-4, li rende come dormienti, sviluppò quindi un’altra molecola (un anticorpo) diretta contro quella proteina, che si dimostrò in grado di far regredire il tumore. Honjo scoprì un altro “freno”, chiamato PD-1. Sbloccandolo con una molecola diretta al bersaglio, il cancro scompariva.