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Ho tradito mio marito con l’uomo che meno avreste mai immaginato. E tutto è iniziato in un ascensore bloccato



Quel giovedì mattina di marzo doveva essere come tutti gli altri. Davide era già uscito di casa alle 7:30, diretto in ufficio come sempre, e io stavo scendendo per andare in palestra. Premetti il pulsante del piano terra. Ma nulla accadde.



L’ascensore si fermò di colpo tra il secondo e il primo piano, con un rumore metallico che non dimenticherò mai. «Merda!» sussurrai, premendo nervosamente tutti i pulsanti. Nessuna risposta. Il citofono interno gracchiava appena.

Fu allora che sentii una voce dall’intercomunicatore:
«Signora, sono Roberto, il tecnico. Sto salendo.»

Spiegò che c’era un problema elettrico e che ci sarebbe voluto un po’ di tempo per sbloccarmi. Conoscevo Roberto di vista: un uomo sui quarant’anni, mani forti da operaio, educato, con uno sguardo che mi aveva sempre messa a disagio, come se riuscisse a leggere dentro di me.

Quando aprì le porte esterne al secondo piano e si calò nell’ascensore attraverso il soffitto, il mio cuore accelerò. Era più vicino di quanto fosse mai stato e, in quello spazio ristretto, sentii il suo odore: un misto di sapone e qualcosa di profondamente maschile, autentico.

«Ci vorrà almeno un’ora, forse due» disse controllando i cavi. «Mi dispiace, signora Martina

Sapeva il mio nome. E il modo in cui lo pronunciò, con quella voce roca, mi fece tremare. All’inizio parlammo del più e del meno. Io, seduta sul pavimento, lo osservavo muoversi con sicurezza tra i fili. Ma nell’aria c’era qualcosa: una tensione crescente, palpabile.

«Suo marito lavora molto» disse a un certo punto, senza guardarmi.
«Troppo» risposi, prima ancora di rendermene conto.

Ci scambiammo uno sguardo, e capii che stava succedendo qualcosa di irreversibile.
«Martina» disse di nuovo, questa volta come se assaporasse il mio nome.

Non trovai parole. Lui si avvicinò.
«Da mesi ti vedo salire e scendere da questo ascensore e mi chiedo cosa provi davvero… una donna come te.»

Una donna come me: bella, sposata, ma con qualcosa negli occhi… come se cercassi altro. Aveva ragione. Con Davide tutto era diventato routine: lavoro, divano, Netflix, e rapporti intimi ridotti a un appuntamento fisso, meccanico.

«Non dovremmo…» mormorai, ma non mi allontanai quando si sedette accanto a me. La sua mano sfiorò la mia e fu come una scossa elettrica. Per la prima volta da anni mi sentii viva.

Quando l’ascensore si sbloccò due ore dopo, eravamo già complici di qualcosa che non aveva ancora un nome.
«A domani» disse lui.
«A domani» ripetei, senza alcun motivo logico per rivederci.

Il giorno dopo ci incontrammo di nuovo. Questa volta mi baciò tra il terzo e il quarto piano. Le sue labbra sapevano di caffè e pericolo.
«È sbagliato» sussurrai.
«Lo so» rispose, «ma non riesco a smettere di pensare a te.»

E io non riuscivo a smettere di pensare a lui. Durante le cene silenziose con Davide, mentre lui scorreva distrattamente lo schermo del telefono, io ripensavo alle mani di Roberto, al modo in cui mi guardava, a come mi faceva sentire desiderata.

Il terzo incontro fu più intenso, più pericoloso. Stavolta non c’era alcuna scusa professionale: era lì per me, e io per lui. Le sue mani si persero nei miei capelli, e sentii risvegliarsi una parte di me che credevo morta.

Per settimane continuammo così: baci rubati, mani che si cercavano sotto i vestiti, sussurri che mi restavano addosso per tutto il giorno. Vivevo due vite: la moglie perfetta di giorno, l’amante appassionata negli ascensori bloccati.

Poi Roberto mi disse:
«Voglio conoscerti davvero. Non solo qui.»

Accettai. Cominciammo a vederci in un bar dall’altra parte della città. Mi parlò della sua vita: divorziato da tre anni, una figlia adolescente, un lavoro che amava. Poi mi chiese:
«E tu? Sei felice?»

Non ricordavo più l’ultima volta che qualcuno me lo avesse chiesto… o che io stessa me lo fossi chiesta.

Con Davide tutto era sicuro e prevedibile. Ma era abbastanza? Roberto mi prese la mano.
«La vita è troppo breve per accontentarsi.»

Il primo vero appuntamento fu in un ristorante intimo. Davide era in trasferta e io mi sentii libera: libera di ridere, di flirtare, di essere me stessa. Roberto mi guardava negli occhi e mi ascoltava davvero.

Quella sera pensai seriamente di lasciare mio marito. Ma il giorno dopo Davide tornò con un mazzo di rose.
«So di essere stato distante. Ma tu sei la cosa più importante per me.»

Il senso di colpa mi travolse. Feci l’amore con lui, ma con la mente ero altrove, tra le braccia di Roberto.

Quando lo incontrai di nuovo, ero tesa. Gli raccontai di Davide e della sua intenzione di ricominciare.
«E tu cosa vuoi?» mi chiese.

Non sapevo rispondere. Ma lui sì:
«Voglio te. Tutta te.»

Due giorni dopo, dopo un’altra cena noiosa con mio marito, ero di nuovo tra le braccia di Roberto.
«Non riesco a stare lontana da te» confessai.
«Allora non farlo. Lascialo e vieni via con me.»

Per giorni ci pensai. Poi, il sabato in cui dovevo dargli una risposta, inventai un mal di testa per non accompagnare Davide a vedere case. Andai da Roberto e lo baciai alla luce del sole per la prima volta.

Ma quando tornai a casa, trovai Davide con una donna che si presentò come dottoressa Melis, investigatrice privata.
«Ti sto facendo seguire da tre settimane» disse mio marito. «So tutto.»

Mi mostrò foto di me e Roberto: nell’ascensore, al ristorante, al bar.
«Avevi intenzione di dirmelo?»
«Sì» risposi a bassa voce.

«Per lasciarmi per lui?» insistette.
Non risposi.
«Hai buttato via quattro anni per un operaio conosciuto in un ascensore.»

Provai a spiegare che non era solo sesso, ma amore. Lui rise amaramente.
«Lo conosci da due mesi. Cosa credi di sapere di lui?»

Forse aveva ragione. Ma lui, dopo quattro anni, cosa sapeva davvero di me?

«Voglio il divorzio» concluse, «e non avrai niente.»

Quel giorno capii che l’uomo che pensavo di conoscere era, in realtà, uno sconosciuto.

Quella sera andai da Roberto con la valigia. I primi giorni insieme furono difficili: litigavamo, ci guardavamo con occhi nuovi, forse disillusi. Ma lui disse:
«Preferisco commettere un errore vivendo davvero, piuttosto che continuare a fingere.»

Ora sono passati otto mesi da quel giovedì mattina nell’ascensore. Ho perso una casa, la sicurezza economica, alcuni amici. Ma ho ritrovato me stessa.

Roberto e io stiamo ancora insieme. Non è facile, non è perfetto, ma quando ci guardiamo negli occhi sappiamo che vale la pena provarci.

Molti mi giudicano egoista, altri coraggiosa. Io so solo che, per la prima volta dopo anni, mi vedo sorridere allo specchio.

E forse, alla fine, è questo che conta davvero.



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