Alberto Angela, il più noto e pluripremiato (assieme al padre Piero) divulgatore scientifico italiano



All’anagrafe sono 60. Ma se si considerano tutti i luoghi della Terra che ha visitato e i misteri che ha scandagliato, potremmo azzardare che di anni ne abbia vissuti cento, forse mille. Alberto Angela, il più noto e pluripremiato (assieme al padre Piero) divulgatore scientifico italiano, l’8 aprile festeggia l’importante giro di boa e parte con quattro nuove puntate di Ulisse – Il piacere della scoperta (dal 9 aprile su Raiuno), uno dei programmi di approfondimento più seguiti di sempre, giunto alla sua ventiduesima edizione. «Non mi sento 60 anni», confida Alberto Angela. «Sono proprio come Ulisse, la curiosità mi mantiene giovane».



Il pubblico di ogni età lo adora e lo paragona a Indiana Jones, non a torto: fascino a parte, per affrontare i numerosi reportage nelle zone più sperdute e impervie del pianeta, Angela ha spesso sfidato pericoli e incognite. Così, in attesa di goderci le nuove entusiasmanti puntate di Ulisse (che parleranno del Titanic a centodieci anni dalla tragedia, dei motivi che hanno portato all’estinzione dell’uomo di Neanderthal, della Sardegna sconosciuta e della Parigi degli impressionisti), ci facciamo accompagnare dallo stesso Angela nella straordinaria avventura che è stata finora la sua vita. Il suo primo ricordo? «È in bianco e nero.

Sono nato a Parigi perché mio padre era corrispondente per la Rai dalla Francia. Ma quando avevo un anno e mezzo ci trasferimmo in Belgio dove pioveva sempre ed era grigio. Imparai già da piccolo a temprarmi contro il freddo, giocando all’aperto in ogni condizione atmosferica. Quando a 8 anni traslocammo a Roma, ricordo i colori, il clima, la piacevole confusione che mi invasero appena scesi dal treno. Capii cosa doveva aver provato Ulisse quando tornò a Itaca, quella sensazione di sentirsi a casa». Lei ha girato il mondo: qual è il posto migliore dove vivere? «L’Italia, senza dubbio. Abbiamo tutto: il clima, la storia, la cultura.

Il nostro modo di vivere è un distillato pregiato, come l’aceto balsamico, della saggezza, della bellezza e della bontà di chi ci ha preceduto. Eppure a volte lo critichiamo». Che bambino è stato? «Molto vivace. Sono finito undici volte al pronto soccorso. Ed ero anche molto loquace. Un medico francese mi aveva soprannominato monsieur pourquoi (signor perché, ndr) poiché facevo domande in continuazione».

I primi viaggi furono in famiglia… «Devo dire grazie a mio padre perché in vacanza ci portava in luoghi sperduti e non certo con tutti i comfort. Ricordo un viaggio sull’Himalaya in sacco a pelo. Oppure la volta che andammo su un’isola di ex tagliatori di teste in Indonesia a bordo di una nave cargo, che per poco non si rovesciò per una terribile tempesta. La scialuppa di salvataggio aveva solo tre posti per il capitano e i due membri dell’equipaggio… Ma il viaggio è nel Dna di noi Angela.

Mio nonno Carlo Angela (1875- 1949, insignito del riconoscimento di Giusto tra le Nazioni per aver aiutato molti ebrei durante la Shoah, ndr) scelse di andare a fare il medico in Congo, in anni in cui le condizioni di vita erano pessime». Lei è sposato dal 1993 con Monica e ha tre figli: Edoardo, Alessandro e Riccardo. Ha trasferito anche a loro la sua passione? «Quando erano piccoli sì, ma ora sono cresciuti e vanno per i fatti loro, chi con gli amici, chi con la fidanzata. I figli ci sono davvero dati solo in prestito dalla vita. In un battibaleno non sono più tuoi». Quali rischi ha corso durante le sue spedizioni? «Ci sono situazioni per cui ti devi preparare o equipaggiare.

Per andare in Antartide ho dovuto fare un corso di sopravvivenza, perché quando soffia il vento catabatico in pochi minuti la temperatura scende a meno 70 e bisogna allestire in fretta una tenda altrimenti rischi di assiderarti. Un pericolo simile l’ho corso sul Monte Bianco: ero in cima per una ripresa e l’elicottero non riusciva ad atterrare perché improvvisamente si è alzato un vento forte. Avevo, però, tutto l’occorrente per costruirmi un rifugio per la notte».

Ha avuto mai paura? «Una volta, quando ancora non esistevano i droni, per riprendere dall’alto un castello in Inghilterra io e l’operatore salimmo in mongolfiera, ma c’era molto vento e abbiamo dovuto fare un atterraggio di fortuna con un impatto al terreno così violento che è un miracolo se siamo ancora vivi. Lì ho temuto. In un’altra occasione sono dovuto entrare nelle sabbie mobili mettendo alla prova una tecnica grazie alla quale non si sprofonda. Per fortuna è andata bene (sorride)». Ha qualche oggetto del cuore portato dai suoi viaggi? «Ho un paio di anfibi che mi accompagnano da quarant’anni.

Non si sono distrutti nemmeno quando inavvertitamente camminai sulla lava. Ho ancora l’impronta della suola». C’è un luogo dove vorrebbe andare? «I continenti li ho girati tutti. Mi piacerebbe andare nello Spazio». E dove torna sempre volentieri? «La Grecia, l’Egeo, il mondo ellenico. Ogni viaggio però diventa magico quando sono in armonia tre fattori: il soggetto che lo compie, il luogo e la compagnia». Che rapporto ha con i suoi collaboratori? «Siamo molto affiatati, non esistono gerarchie. Ogni spedizione è un’avventura in cui servono le qualifiche professionali e le qualità umane di tutti. Noi siamo un equipaggio alla Star Trek».

Lei è figlio d’arte. In cosa si sente simile e in cosa diverso da suo padre Piero? «Nella divulgazione: siamo come i centravanti di due squadre forti ma di due epoche diverse. Lui ha un approccio più giornalistico, io più scientifico. Di lui ammiro l’esperienza e la visione più globale». Cosa fa quando non lavora? «D’estate mi riposo, sto con la mia famiglia. Di mattina quando riesco vado in piscina. Il contatto con l’acqua mi rilassa ed è un modo per stare tra me e me». Ha una passione segreta? «Adoro il caffè, lo considero un rito. Ne bevo quattro tazzine al giorno, rigorosamente senza zucchero. Il primo la mattina, insieme a moglie e figli».

Ed è anche goloso… «Mi piacciono il tiramisù, perché ha una base di caffè, e il profiterole». Che libro ha sul comodino? «In genere mi piacciono i romanzi storici. Ora sto leggendo un libro sull’uomo di Neanderthal cui ho dedicato un servizio di Ulisse. Andremo a risolvere un cold case dell’antichità: non è vero che fu sconfitto dall’uomo Sapiens. Le due specie sopravvissero a lungo insieme. Tanto che ognuno di noi ha almeno dal due al quattro per cento del Dna del Neanderthal». Come possiamo saperlo? «Erano popolazioni che venivano dal Nord. Chi ha la pelle molto chiara, i capelli biondi o rossi o la tendenza a mettere su peso, che era un modo per proteggersi dal freddo, di sicuro è simile a un Neanderthal». Da estimatore della bellezza, quali sono le opere d’arte che la ispirano? «Sono tante: il Cristo Velato a Napoli, la Cappella Sistina. In genere, però, mi commuovo quando un oggetto del passato mi ricorda l’uomo, come il calco di un’impronta di Pompei».



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