Don Matteo perché ha tanto successo?



In maniera provocatoria, si potrebbe dire che Don Matteo è l’unica cerimonia di sapore religioso cui gran parte della popolazione italiana partecipa, visto che la domenica le chiese sono sempre meno affollate. Spiegare il successo di Don Matteo è insieme facile e complicato.



Facile perché è la “messa cantata” di Rai 1 e della Lux Vide: con la scusa di obbedire alla sua missione sacerdotale, un parroco (interpretato da Terence Hill che presto lascerà il posto a Raoul Bova) diventa detective. Alla vocazione talare se ne aggiunge una seconda: il male dev’essere bandito e se la parola (il Verbo) non basta si passa all’azione.

Ovviamente con l’aiuto dei Carabinieri. Non c’è violenza, e spesso i toni di commedia (ben raffigurata da Nino Frassica) concorrono a costruire un piccolo mondo antico, anticipazione terrena della giustizia divina.

Facile a dirsi, ma come fa Don Matteo ad aver un’audience così trasversale da comprendere il pubblico femminile e anziano (il cosiddetto “zoccolo duro” di Rai 1) ma anche bambini, adolescenti? Come fa a conservare così tanti “fedeli” per così tanti anni? Don Matteo, insieme con la serie dedicata alle indagini del commissario Montalbano, è una delle più longeve fiction della Rai. Dal punto di visto linguistico è un mix perfetto di generi e stili: c’è il giallo all’italiana (il confessionale è più efficace dei laboratori dove si ricerca il Dna), c’è la commedia, tutta giocata su fraintendimenti e malintesi, c’è un universo immaginario ad alta densità delinquenziale (ben oltre le medie nazionali).

L’idea di fondo è molto semplice ma di grande efficacia: seguendo una consolidata tradizione letteraria e cinematografica, il parroco don Matteo Bondini diventa detective (come Padre Brown di Chesterton, interpretato in Italia nel 1970 da Renato Rascel) per ergersi a difensore degli innocenti accusati per errore.

Tempo fa, uno degli sceneggiatori, Mario Ruggeri, ha spiegato in un’intervista lo schema narrativo base di ogni puntata: si parte con il teaser, cioè la scena di apertura in cui viene svelato un omicidio o un caso da risolvere, poi si passa all’inizio dell’indagine affidata ai Carabinieri.

A quel punto s’individua un possibile colpevole e don Matteo viene coinvolto nell’inchiesta anche per via del suo intuito e dei suoi gesti atletici (usa solo la bicicletta). Il punto di svolta? L’immancabile “scena degli scacchi” tra il prete umbro e il maresciallo Cecchini (Frassica), durante la quale emergono dubbi che portano al ribaltamento che conduce inevitabilmente a scoprire il vero colpevole.

Questa ripetizione (questa solidità narrativa) è diventata con il tempo una specie di liturgia laica dove la violenza è bandita, dove l’opera di bene va a braccetto con la commedia per costruire un mondo migliore. Tutto facile? Don Matteo, cioè Terence Hill, ha due sole espressioni: il sorriso e il corruccio, anche se un po’ si assomigliano. Più che sufficienti per sorvegliare le coscienze del suo gregge, soprattutto quello televisivo? Evidentemente sì.

E quelle che da un punto di vista estetico possono sembrare imperfezioni (per esempio, la rigidità della proposta registica) nel mistero delle cerimonie collettive diventano pregi (del resto, anche il copione della messa è sempre uguale). In realtà, Don Matteo è un prodotto molto studiato che si regge anche su vari intrecci (in gergo si chiamano “sottotrame”) rivolti all’audience più differenziata. Così, nella sicurezza del lieto fine, nessuno più si chiede come mai nella piccola parrocchia di Don Matteo si compiano così tanti crimini.



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