Letizia Battaglia, chi era la fotografa che sfidò la mafia



Mi mancava la puzza di Palermo », così rispondeva Letizia Battaglia a chi le domandava perché scegliesse di ritornare sempre nella sua Sicilia martoriata. La fotografa, scomparsa il 13 aprile a 87 anni, è protagonista della fiction Solo per passione – Letizia Battaglia fotografa, in onda su Raiuno il 22 e 23 maggio nel trentesimo anniversario della morte di Giovanni Falcone («Un grande onore», aveva detto lei).



La strage di Capaci del 1992 segnò anche per Battaglia, che fotografava gli omicidi di mafia dalla fine degli anni Sessanta, la chiusura di un’epoca: di quell’orrore decise di non prendere nemmeno uno scatto, ormai stremata da troppa violenza.

Le sue foto, in bianco e nero, avevano già raccontato il lungo calvario di Palermo assediata dalla mafia, la terribile mattanza durante la quale Cosa Nostra aveva massacrato poliziotti, magistrati, politici, cittadini inermi.

I suoi trent’anni da reporter per il quotidiano di Palermo L’Ora, che s’intrecciano con una vita privata tormentata e in anticipo sui tempi, sono narrati dalla fiction nella quale la fotografa è interpretata dall’attrice palermitana Isabella Ragonese. Battaglia subentra nelle inquadrature finali nei panni di se stessa, come un ultimo struggente commiato. «Quando le parlai di questo progetto ne fu subito entusiasta», ci racconta il regista e sceneggiatore Roberto Andò, amico di Letizia da quarant’anni. «Era una donna generosa e mi aveva preso sotto la sua ala quando ero solo un giovane di belle speranze.

Mi dispiace che non sia riuscita a vedere la fiction completa. La sua scomparsa è stata un dolore immenso ». L’idea, spiega Andò, gli era venuta in occasione della grande mostra retrospettiva che il museo Maxxi di Roma dedicò a Battaglia alla fine del 2016. «La vidi in sedia a rotelle, coccolata da tutti e poi ospite al ricevimento in suo onore tenuto da una principessa. Sapendo quante ne aveva passate mi venne voglia di raccontare la storia che c’era dietro: una vita piena di avvenimenti che avrebbero potuto anche annientarla». Da bambina Letizia Battaglia subì il peso di una famiglia opprimente e scelse di sposarsi a soli 16 anni con la classica fuitina.

Ebbe tre figlie, ma si trovò imprigionata in un matrimonio infelice. «In seguito all’amicizia con un coetaneo fu accusata di adulterio e rinchiusa in una clinica psichiatrica in Svizzera. Tornata a Palermo, pur di non essere di nuovo internata accettò di cominciare una psicoanalisi e anche in questo fu avanti sui tempi. Grazie al suo terapeuta Francesco Corrao trovò il coraggio di ribellarsi. Lui la spinse a ricominciare a 35 anni: “Solo se si realizza come donna e sul lavoro può essere un punto di riferimento per le sue figlie”, le dice».

Lasciò quindi il marito benestante – pur non esistendo ancora il divorzio – e per mantenersi cercò un impiego nel quotidiano L’Ora, che l’aveva intervistata in forma anonima per un’inchiesta sui matrimoni infelici a firma della giornalista Giuliana Saladino. «Letizia vide in lei un esempio e capì che quella poteva essere la sua strada», racconta Andò. «Si presentò d’estate e il direttore, Vittorio Nisticò, a cui mancava personale, incredibilmente la prese: questo fa capire la misura del suo carisma». Battaglia cominciò a fotografare a 40 anni, perché le servivano le immagini a corredo dei suoi pezzi.

Non era interessata alla tecnica, piuttosto all’intensità umana. «Come fotoreporter si impose grazie all’empatia, all’innocenza, alla sensualità, unica donna e pure bella, in ambienti maschili come i giornali e la polizia. Ho voluto mostrare la fatica e i pregiudizi che ha dovuto superare prima di riuscire a farsi rispettare». «La fotografia mi ha salvato», dice Battaglia nella fiction. «Ho ritratto i morti ammazzati, ma non ho mai perso la speranza. In mezzo a tanto dolore ho cercato gli occhi delle bambine: la loro innocenza per ritrovare me stessa». La foto della ragazzina con il pallone, del 1980, ha fatto il giro del mondo. Battaglia credeva nel proprio lavoro: che potesse risvegliare le coscienze del mondo, fino al colpo finale, il 23 maggio 1992 con la strage di Capaci. «Da quel momento anche la fotografia cominciò a starle stretta.

Aveva visto morire tutti quelli con cui aveva collaborato e iniziò a pensare che il suo mestiere non servisse a niente. Si lanciò in politica e divenne assessore nella giunta del sindaco Orlando. Anche lì, col suo piglio deciso, riuscì a realizzare diverse cose». Rappresentava l’anima di una Palermo mai cinica, che manteneva la voglia di combattere con generosità. «Però non abbiamo realizzato un santino», conclude Andò. «Ne riveliamo anche le contraddizioni, soprattutto quelle di madre non perfetta, troppo presa dal lavoro per stare con le figlie. Due di loro hanno collaborato alla fiction, una invece non l’ho mai vista».



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