Nicolai Lilin chi è, cosa pensa di Vladimir Putin?



La guerra è entrata nella sua vita a 12 anni: «Contro noi russi della Transnistria la destra nazionalista moldava scatenò un vero e proprio odio etnico. Da un giorno all’altro i compagni di classe cominciarono a chiamarci “porci”».



A 19 anni poi, eccolo, Nicolai Lilin – da noi noto per romanzi come Educazione siberiana -, tra l’esercito russo in Cecenia, la prima, terribile, guerra di Putin: «Ero nei corpi scelti, creati ad hoc da Putin in cui militari giovani come me erano addestrati da generali di sua fiducia, provenienti dai servizi segreti, non legati in alcun modo con il vecchio ministero della Difesa ex sovietico, di cui Putin non si fidava. Con un addestramento di tre mesi ho combattuto per due anni e tre mesi.

Per stanare 95mila terroristi, si massacrarono 200mila persone, al confronto quel che accade in Ucraina è niente. Io ero un cecchino. Quando fai quel mestiere lì, vedi bene chi ammazzi. Poi non sei più lo stesso uomo». Lei alle guerre di Putin ha detto basta, tra sferendosi in Italia, facendo il tatuatore e il romanziere. Sul presidente russo ha scritto Putin, l’ultimo zar – Da San Pietroburgo all’Ucraina (Piemme, € 12,50). Cosa è che non ha capito l’Occidente? «Non ha voluto capire che un conflitto stava arrivando.

Sono almeno 5 anni che Putin aumenta le riserve auree delle banche russe, si preparava alle sanzioni. E sono anni che riservisti russi vengono richiamati nell’esercito. Io ho molti amici che hanno combattuto con me, che erano tranquillamente in pensione dopo 15 anni di servizio. Sono stati richiamati. E sono agenti di forze speciali, il che vuol dire che si stava preparando un’operazione importante, non certo un’esercitazione per i militari di leva. E dopo l’invasione della Crimea nel 2014, a Putin non rimaneva altro che l’Ucraina».

La prefazione del suo libro è datata 2 marzo. Parlava di speranza, di operazione rapida. Ora è meno ottimista? «Un proverbio russo dice: “La speranza muore per ultima”». Lo dice anche un proverbio italiano… «Quello russo continua: “La speranza muore per ultima. Ma a volte comunque muore”. E chiaro che le immagini di profughi, di famiglie uccise sono strazianti. Ma bisogna ragionare in termini geopolitici per fermare la guerra».

Come si può fermare? «Ragionando. Non certo urlando “pace, pace”, e poi inviando le armi in Ucraina. In questo modo si prolunga la guerra, sulla pelle di quel popolo. Ho (‘norme rispetto dell’esercito ucraino, sono grandissimi professionisti, sone ben attrezzati e addestrati anche dai britannici. Ma continuando ad armarli si fa il gioco di quella classe dominante che vuole riportare la Cortina di Ferro, staccare la Russia dall’Europa, anche l’Europa dal gas russo.

A me fanno sorridere e arrabbiare quelli che, dal cuore della vecchia Europa, fanno gli spadaccini, dicono “combattete” a un popolo che eroicamente sta affrontando un’invasione. Ma quanto possono opporsi gli eroici ucraini senza una vera aviazione, senza forze missilistiche adeguate? Dire “pace” e mandare armi è un modo per prolungare la guerra senza subirla noi».
Qual è la soluzione allora? «Una sola. Si chiama diplomazia. In fondo da anni Putin fa capire chiaramente cosa vuole: ridare alla Russia lo sbocco sul Mar Nero, togliendolo all’ucraina, riunendosi alla Crimea. In cambio, metterà sul tavolo delle trattative le altre città che adesso sta bombardando come Kiev.

Ed è meglio se a trattare si sieda con lui qualcuno di cui si fida, Angela Merkel per esempio, l’ex cancelliera tedesca con cui sono stati in rapporti di rispetto per anni. Perché ora dell’Europa Putin non si fida, la vede come nemica». Scusi Nicolai, ma se oggi si asseconda Putin, e un domani lui si svegliasse facendo marciare i suoi tank verso Polonia o Moldavia? «Se si guarda alla sua storia si capisce che non ha senso questa paura, non fa parte delle sue mire.

Putin vuole passare alla storia come l’ultimo zar che ha ricostruito la Russia precedente alla sfacelo post sovietico, ma vive in questa epoca e sa fino a dove può spingersi. Siamo sordi e ciechi se non lo capiamo. Perché dobbiamo provocarlo tenendo i missili Nato in Polonia puntati verso Mosca? Occorre trattare, tanto lui le zone russofone o di influenza russa ha dimostrato che se le va a prendere, in un modo o nell’altro».

E ai russi sta bene? «Quando parliamo di Russia parliamo di 140 milioni di persone: tra molti di questi il potere di Putin è molto radicato perché ha dato stabilità. Certo gli oppositori ci sono. La Russia ha una fortissima tradizione della cultura del dissenso, molto più degli occidentali. Dostoevskij finì davanti a un plotone di esecuzione per aver letto brani di Gogol contro il potere zarista. Ma non aspettatevi una seconda Rivoluzione d’ottobre. I russi di guerre civili ne hanno vissute abbastanza. E poi la Russia non è solo Mosca e San Pietroburgo, è la Siberia, sono le campagne sterminate».

Dove la cyberguerra di Anonymous non arriva? «Figuriamoci! Un sindaco di una cittadina alla sua gente ha detto: “L’Occidente ci ha bloccato l’accesso a Internet; non avremo più Wikipedia, i siti porno, Instagram; ci hanno tolto McDonald’s e l’Ikea: tra dieci anni saremo la nazione più libera e più sana del mondo!”». Lei racconta di una vera e propria metamorfosi di Putin… «Per diventare quello che è oggi ha lasciato da parte tutta la sua parte umana, quella che studiava Giurisprudenza per diventare un professore di Affari internazionali.

Quando diventò vicesindaco di San Pietroburgo, appena caduto il Muro di Berlino, scelse di scendere a patti con la criminalità organizzata: ogni oligarca aveva il suo esercito personale, si rischiava la guerra tra bande. I potenti si spartirono i beni dell’ex Urss, la popolazione stava al freddo e alla fame ma intanto c’erano sei casinò in città per ripulire denaro sporco. Putin appoggiò tutto questo. Un suo amico racconta che allora il suo sguardo cambiò. Oggi Putin vuole che i bambini fra 30 anni nei  libri di storia trovino il suo nome coburgo della guerra tra bande da ragazze quello che ricostruì la Russia dopo il disastroso crollo post sovietico».



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