Gabriele Muccino ritorna in Tv e si confessa



Fratelli che urlano l’uno contro l’altro, sposi che si tradiscono e si ritrovano, padri e figli che litigano, urla, pianti, piccoli momenti di felicità. E poi intrighi, drammi segreti, la famiglia che con i suoi tentacoli non ti lascia mai. Sono questi gli ingredienti della seconda stagione di A casa tutti bene (su Sky e in streaming su Now dal 5 maggio), di cui Gabriele Muccino è regista. Ma, a ben vedere, sono gli ingredienti di tutta la sua produzione.



Da quando nel 2001 ha conquistato il grande pubblico con l’ormai celebre L’ultimo bacio, Muccino ha sempre portato sullo schermo le luci e le ombre della famiglia, riuscendo a tratteggiare in modo unico i momenti più drammatici. La seconda stagione dell’attesissima serie riprende la narrazione dal momento in cui, alla fine delle prime otto puntate, si era scoperta l’orrenda verità: Alba, la madre del fratelli Ristuccia (Carlo, Paolo e Sara, ormai adulti), confessa di aver ammazzato per sbaglio 30 anni prima l’amante del padre.

L’eco di questa tragedia piomberà come un uragano sulle vite dei tre e delle loro famiglie, trascinandoli in un vortice di bugie e di altre tragedie inconfessabili. Noi di Gente abbiamo visto in anteprima i primi quattro episodi della nuova serie: i colpi di scena, la svolta thriller della quarta puntata, i tormenti dell’anima e i momenti drammatici sono un crescendo che ti tiene incollato allo schermo. E proprio da qui cominciamo a parlare con il regista.

Muccino, lei vuole farci venire un infarto, ci vuole far star male. «(Scoppia a ridere, ndr). So che non ci si aspetta quello che si vede nella serie. Ma del resto i protagonisti stanno esplorando una condanna divina, che di divino in realtà ha ben poco: le loro gesta sono molto umane. Comunque lei ha visto solo fino alla quarta puntata. Le assicuro: andrà peggio». L’omicidio commesso dalla madre ricade come colpa sui figli, che commettono gli stessi errori: pare una tragedia greca. «Ma è la verità: la famiglia è la struttura in cui siamo cresciuti e che può creare dei traumi, dei buchi neri.

Il tuo subconscio viene modellato a partire da quando sei un feto, poi va avanti da bambino e da ragazzo fino all’età adulta. Noi crediamo di essere razionali a fare le cose, invece è il subconscio che ci guida. La famiglia è il microcosmo che riflette la società. Quello che uno impara lì dentro poi lo riproduce fuori, con il partner e nella nuova famiglia che crea, con gli altri». La famiglia è più il luogo della sopraffazione o dell’amore? «Entrambe le cose. Però l’amore genera gelosia. E la gelosia crea possessività, poi aggressività e quindi paura». Insomma, finisce sempre in tragedia: non c’è redenzione? «Se uno riesce a rompere la catena, sì.

Nella saga dei Ristuccia, uno ci riesce. Ma solo attraverso l’allontanamento». Parla come una persona che è stata in analisi. È così? «No, mai fatta: io leggo, studio, osservo. Facendo film devo per forza sgrovigliare e ordinare quello che è il caos della mia vita e questo mettere in fila le cose è una forma di analisi molto forte. Mi ha salvato la vita fare film, a volte». Addirittura salvato la vita? «Sì: negli anni ho avuto momenti molto difficili e metterli in chiave drammaturgica mi ha permesso di creare una specie di ordine: li ho analizzati, raffigurati, compressi, guardati». Le liti tra familiari nei suoi film sono epiche e da sempre sono il tratto distintivo dei suoi film.

Guardandole ci si sente denudati. Come fa? «Mi viene facilissimo farle, non mi chieda perché: non lo so. Con il tempo ho scoperto che avevo questa capacità, ma non era un calcolo o un programma». Cosa voleva fare da grande? «Volevo fare quello che faceva Vittorio De Sica: raccontare l’animo umano. Poi non sono mai diventato De Sica, ma ho capito che potevo raccontare l’animo e la sua vulnerabilità in microstorie. E dentro ci ho messo molto della mia struttura emotiva».



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