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Ilaria Parimbelli uccisa da un’encefalite confusa con l’ansia: «Il dottore non ha ascoltato i segnali»



La famiglia di Ilaria Parimbelli chiede ancora giustizia per la 28enne di Zingonia, morta nel 2021 dopo due anni di stato vegetativo causato da una encefalite erpetica non riconosciuta in tempo.



Aveva solo 28 anni Ilaria Parimbelli, quando la sua vita è cambiata per sempre. Nel settembre del 2019 si era recata al pronto soccorso del Policlinico San Marco di Zingonia, in provincia di Bergamo, lamentando febbre alta, vomito, forti mal di testa e allucinazioni. I sintomi, che avrebbero dovuto far pensare a un’infezione neurologica, furono invece interpretati come una crisi d’ansia. Dopo qualche ora, la giovane fu dimessa.

Solo quattro giorni dopo, le sue condizioni peggiorarono drasticamente. Trasferita d’urgenza all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, le venne diagnosticata un’encefalite erpetica, una grave infiammazione del cervello causata dal virus dell’herpes simplex. Il ritardo nella diagnosi, secondo l’accusa, fu fatale: Ilaria entrò in stato vegetativo e rimase completamente invalida per due anni, incapace di parlare, muoversi o persino deglutire. Il 1º agosto 2021 morì soffocata da un rigurgito provocato da una crisi epilettica.

Oggi, a distanza di oltre quattro anni dai fatti, la vicenda è approdata in tribunale. Sul banco degli imputati siede Francesco Bagnolo, 63 anni, medico del Policlinico San Marco che prese in carico la giovane nel 2019. È accusato di omicidio colposo e responsabilità medica per colpa professionale. La prossima udienza è fissata per il 12 gennaio, dopo che quella del 19 novembre si è conclusa con la testimonianza di due esperti nominati dal tribunale.

Davanti alla giudice Donatella Nava, l’infettivologo Roberto Stellini e il medico legale Andrea Verzeletti hanno risposto alle domande dell’avvocato della famiglia Parimbelli. «Se l’imputato avesse chiesto un consulto neurologico, l’encefalite erpetica avrebbe potuto essere diagnosticata in tempo?» ha domandato il legale. Il dottor Stellini ha spiegato: «Un neurologo avrebbe avuto una sensibilità diagnostica maggiore. Avrebbe prescritto una Tac, che probabilmente sarebbe risultata negativa e, alla luce dei risultati, magari altri esami, come un elettroencefalogramma o una risonanza magnetica».

La giudice ha poi chiesto ai periti se, sulla base dei dati clinici raccolti al momento del primo ricovero, il medico avesse elementi sufficienti per sospettare una patologia neurologica. Il professor Verzeletti ha risposto: «Non è stato dato sufficiente peso alle allucinazioni uditive e visive. Avrebbe dovuto chiedere un consulto neurologico e disporre ulteriori accertamenti per avere dati più precisi».

Secondo quanto emerso in aula, le allucinazioni erano state segnalate come sintomi durante la visita al pronto soccorso, ma non furono ritenute significative dal medico di turno, che attribuì il malessere a uno stato ansioso. L’accusa sostiene che proprio la sottovalutazione di quei segnali abbia impedito di individuare per tempo la malattia e di iniziare una terapia antivirale, che avrebbe potuto salvare la giovane.

La famiglia di Ilaria, assistita da un legale di parte civile, continua a chiedere chiarezza. I genitori, presenti in aula, non si danno pace per quella diagnosi tardiva che, a loro dire, ha condannato la figlia a due anni di sofferenze. «Non cerchiamo vendetta, ma verità e giustizia», hanno dichiarato più volte.



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