La ragazza del vicolo delle Ortensie si chiamava Mara, ventitré anni, ricci ribelli e qualche chilo in più portato con la disinvoltura di chi ha imparato a ridere prima e dopo gli specchi.
Nel suo piccolo paesino di mare, tre panchine, una chiesa e un bar che sapeva sempre di fritto, i tatuaggi di Mara erano chiacchiere ambulanti: un’onda blu sul polso, la costellazione dell’Orsa Minore sulla spalla, un fiore di campo che le spuntava dalla caviglia come la promessa di una stagione migliore.
Cercava lavoro da mesi. Panetteria? “Serve qualcuno che stia dietro al banco, ordinata.” Ferramenta? “Troppo delicata per sollevare scatoloni.” Boutique? La proprietaria aveva guardato il fiore sulla caviglia come fosse un reato e aveva sussurrato: “Clientela tradizionale.” Mara usciva sempre con la voce che le tremava nelle tasche, e a casa soffocava la frustrazione impastando torte che regalava ai vicini, come se lo zucchero potesse coprire tutto l’amaro.
La sua migliore amica, Nadia, ripeteva: “Non è un posto per restare fermi: o lo sposti con le mani, o ti sposti tu.” Ma Mara voleva provarci ancora. Stampò un cartello e lo appese sulla porta di legno sbiadito della nonna: Lezioni di disegno, ritratti su commissione, personalizzazione tessuti. Pensava di non vedere nessuno, invece arrivò Pietro, il pescatore: “Mi fai un pesce luna per il nipote? Gli piacciono le cose strane.” Poi venne Rosaria, maestra in pensione: “Vorrei una borsa con delle violette, per ricordarmi di mia sorella.”
Il paese iniziò a guardarla di lato, con curiosità. Ma non era un lavoro “vero”, dicevano. Eppure le serate si riempivano di mani sporche d’inchiostro, di stoffe stese come mappe, di risate con Nadia che cuciva e cantava stonate canzoni d’estate. Un pomeriggio, mentre sistemava pennelli, comparve la signora della boutique. “Sabato ho un evento. Mi serve una vetrina che parli di primavera senza sembrare carnevale. Tu sapresti?” Mara ingoiò il nodo in gola e annuì.
Quella notte schizzò bozzetti sul tavolo della cucina. Propose una vetrina con rami secchi dipinti di bianco, appesi a fili invisibili, da cui sbocciavano fiori disegnati a mano su carta velina; al centro, un manichino con un foulard serigrafato da lei, un volo di rondini che partiva da dietro il collo e scendeva su un fianco. Niente di gridato, tutto delicatissimo. Quando la vetrina fu pronta, il primo a fermarsi fu il parroco, che sorrise: “Sembrano veri, quei fiori.”
Il sabato fu un via vai continuo. Qualcuno entrò solo per chiedere chi avesse fatto “quella meraviglia”. La signora della boutique chiamò Mara dietro. “Rimangono due mesi. Ti va di curare tu l’immagine del negozio?” Mara uscì con la prima proposta seria tra le mani, un contratto part‑time che profumava di carta nuova e fiducia.
Da lì si aprirono porticine. Il comune le chiese una locandina per la Sagra del Limone; il bar del fritto volle un menu illustrato; la libreria ambulante, che arrivava una volta al mese, le commissionò segnalibri serigrafati. Un giorno arrivò in paese una piccola troupe per un servizio sui borghi costieri: la vetrina, i menu, i segnalibri finiti nell’obiettivo come se il paese, all’improvviso, avesse ritrovato colori che non sapeva di avere.
Quando l’articolo uscì, qualcuno scrisse: “Una giovane artista valorizza il borgo con il suo tratto personale.” Non dissero “paffutella”, non dissero “troppi tatuaggi”. Dissero “giovane artista”. Mara si guardò allo specchio. I ricci, la costellazione, l’onda. Si mise il rossetto buono e andò a firmare un nuovo contratto con la Pro Loco per le decorazioni delle feste d’estate.
La sera, sulla panchina accanto al mare, Nadia le chiese: “Allora, lo hai spostato il paese o ti sei spostata tu?”
Mara rise. “Ho spostato il confine tra quello che chiamano lavoro vero e quello che so fare con le mani.”
Il vento le scoprì la spalla; l’Orsa Minore sembrò brillare un po’ più forte. Non perché il paese fosse cambiato del tutto, ma perché aveva trovato il punto esatto in cui piantare i piedi e dire: “Eccomi.”
Da quel giorno, quando una ragazza passava davanti alla vetrina con un tatuaggio che le scappava da sotto la manica, smetteva per un attimo di tirarsi giù la maglietta. E se qualcuno sussurrava “non è da qui”, rispondeva a mezza voce: “Neanch’io, ma resto.”



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