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L’appartamento più silenzioso del palazzo



Affittavamo il nostro appartamento a poco prezzo perché la vecchia signora dell’appartamento accanto era fuori di testa. Alle quattro del mattino iniziava a fare rumori fortissimi solo per infastidire i vicini. Un giovane venne ad affittare la casa. Lo avvisammo della situazione e lui si limitò a sorridere. Passò un anno e restammo senza parole: era ancora lì, quando nessuno prima era riuscito a resistere più di otto settimane. Poi, la donna morì.



Entrammo nel suo appartamento e rimanemmo inorriditi nello scoprire… lettere scritte a mano. Decine di lettere. Infarcite nei cassetti, nascoste dietro i mobili, infilate nelle tasche dei cappotti e persino sotto le assi del pavimento. Tutte indirizzate a qualcuno di nome Jonas.

Rimanemmo lì, a bocca aperta, fissando quel caos. L’appartamento non era sporco, ma inquietante. Le pareti erano ricoperte di scarabocchi, segni di conteggio e calendari con date cerchiate in rosso. Quando l’avevano trovata, il bollitore era ancora caldo, come se fosse appena uscita di casa dimenticandosi di tornare.

Quel giovane si chiamava Marcus. Gli chiedemmo se avesse mai notato qualcosa di strano. Lui scosse la testa e disse: “Con me è sempre stata gentile.”

Gentile? Con lui?
La conoscevamo da oltre dieci anni. Si chiamava signora Dragu. Ogni mattina, alle quattro in punto, trascinava il bastone lungo i muri del corridoio, sbatteva le ante dei pensili e marciava sul posto come se si stesse preparando per una parata. Poi, d’improvviso, iniziava a ridere come se assistesse a una commedia che solo lei capiva.

Chiedemmo a Marcus che cosa intendesse. Lui disse: “Quando mi sono ammalato mi portò la zuppa. Mi ascoltava quando parlavo. Mi regalò persino una scacchiera.”
Guardai il mio compagno e gli sussurrai: “Ci sta prendendo in giro?”
Ma Marcus non era il tipo sarcastico. Lo diceva sul serio.

Dopo i controlli, la polizia rilasciò l’appartamento e a noi fu concessa l’entrata. Non per curiosità: la signora non aveva famiglia. Niente figli, niente fratelli. Il Comune aveva bisogno di qualcuno che si occupasse delle sue cose e, essendo noi i proprietari dello stabile, toccò a noi.

Fu così che trovammo quelle lettere.
Più di cento, risalenti ai primi anni ’80. Tutte scritte con la stessa calligrafia incerta, sempre indirizzate a Jonas. Alcune piene di scuse, altre traboccanti di rabbia, altre ancora erano poesie. Dolci, quasi infantili, con piccoli disegni ai margini: uccelli, tazze da tè, nuvole.

Ci sedemmo sul vecchio tappeto e ne leggemmo una ad alta voce:

“Jonas,
oggi ho sentito di nuovo il violino. Hai detto che saresti tornato quando anch’io fossi tornata. Ebbene, eccomi qui. Ho dipinto il corridoio di giallo come piaceva a te. Ho persino cucinato quella torta alle noci. Ma tu non sei arrivato. Ora sono stanca. Forse la prossima primavera?”

Capimmo che Jonas era stato qualcuno che aveva perso molto tempo prima. Forse un marito, un amante, un figlio. Non ne eravamo certi. Nessuna foto, nessun documento. Solo lettere.

Marcus ci chiese se poteva leggerne qualcuna. Esitammo, poi gliene passammo un mucchio.
Si sedette a gambe incrociate come un bambino all’ora della storia e le lesse in silenzio per qualche minuto. Poi disse una cosa che mi fece gelare il sangue.

“Lei mi parlò di Jonas. Mi disse che suonava il violino e che aveva una voglia sulla guancia sinistra.”

Non stava mentendo. Avevamo appena trovato una lettera che diceva la stessa cosa.

“Non ti è mai piaciuto indossare il cappello, Jonas. Dicevi che ti faceva prudere la testa. Io insistevo che lo mettessi comunque. Ricordi? Quell’estate in cui il sole fece diventare la tua voglia rossa come una fragola…”

“Come fai a saperlo?” gli chiesi.
“Me l’ha detto lei,” ripeté, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

“Con noi non ha quasi parlato per dieci anni,” dissi.
Lui scrollò le spalle. “Con me parlava.”

Non sapevo cosa pensare. Forse era solo una donna sola che aveva trovato finalmente qualcuno disposto ad ascoltarla. O forse, col passare del tempo, si era semplicemente ammorbidita.

Una settimana dopo cominciammo a svuotare l’appartamento in modo più serio. Marcus ci aiutava volontariamente. Un mattino scese con una scatola impolverata con scritto “dischi”. Dentro c’erano vinili, soprattutto di musica classica. Alcuni rovinati, alcuni ancora intatti. Marcus ne tenne uno.

“Perché proprio questo?” gli chiesi.
Lo rigirò e ci mostrò il retro. In penna sbiadita era scritto: “Jonas suona la traccia 3.”

Quella sera lo ascoltammo. La traccia 3 era un assolo di violino dolce e malinconico. Bellissimo.

Ed è qui che iniziò la svolta.
Una sera Marcus comparve davanti a noi, con gli occhi spalancati e un pacco avvolto in un panno. Lo aprì lentamente: era un violino.

“L’ho trovato dietro l’armadio,” disse.
Era vecchio, con una corda mancante, il legno leggermente rovinato dal tempo. Dentro la custodia c’era un foglio piegato con quattro sole parole: “Trova la tua voce.”

Lo portò di sopra.
La mattina seguente, alle 4, sentimmo musica di violino.
Non rumore. Non stridii. Musica vera. Soave, come gocce di pioggia sul vetro.

Corremmo alla sua porta e bussammo.
Lui aprì, sorridendo. “Ho pensato di provare.”
“Sai suonare?” chiese il mio compagno.
“Sto imparando. Me lo ha detto lei.”

“Lei?”
Annui, poi indicò una foto sul suo scaffale. Era la signora Dragu, giovane e sorridente, accanto a un ragazzo con un violino. Aveva una voglia simile a una fragola sulla guancia.

“Me l’ha consegnata prima di morire. Disse che avrei dovuto sapere cos’è l’amore, prima che sparisca.”

Ci scosse. Lei sapeva di stare per morire?

Quella stessa settimana Marcus ci disse che si sarebbe trasferito. “Adesso? Hai resistito un anno. Che cosa è cambiato?”
Lui sorrise. “Ho trovato ciò per cui ero venuto.”

Il giorno dopo se ne andò con solo uno zaino e il violino.

Qualche mese dopo, ricevemmo una lettera senza mittente. Dentro c’era un ritaglio di giornale di una cittadina lontana. Il titolo diceva:
“Un giovane ridà vita alla piazza con esibizioni di violino in onore di una leggenda locale.”

Nella foto c’era Marcus, che suonava davanti a una fontana circondata di fiori.
Nell’articolo raccontava che un’anziana donna gli aveva donato un violino e gli aveva detto di trovare la sua voce. Disse che suonava ogni mattina alle 4, non per svegliare la gente, ma per salutare il giorno come faceva lei — con rumore, con presenza, con sentimento.

“Non era pazza,” disse nell’intervista. “Aspettava solo di essere ascoltata.”

Da quel momento, la vedemmo con occhi diversi.

Tornammo nel suo appartamento. Non per svuotarlo, ma solo per sederci.
Lì trovammo un altro biglietto che ci era sfuggito. Incollato all’interno di un cassetto.

“Caro gentile sconosciuto,
se stai leggendo questo, allora mi hai sopravvissuto. Bene.
Spero che tu abbia ascoltato. Non solo con le orecchie, ma con il cuore.
Jonas diceva sempre che il silenzio è più crudele di qualunque urlo.
Fai musica. Anche se fa male.
Con affetto,
L.”

Lo incorniciammo.
E la mattina dopo, non dormimmo più.
Alle 4 camminammo lungo il corridoio dove lei trascinava il bastone e cantava.
Non sentimmo rumore. Sentimmo echi. Di qualcuno che non smise mai di parlare, sperando che, prima o poi, qualcuno l’avrebbe ascoltata.

Il punto è questo.
A volte certe persone possono sembrare insopportabili. Rumorose. Caotiche. Infastidenti.
Ma cosa accadrebbe se, in realtà, stessero solo cercando di essere viste?
E se ogni abitudine fastidiosa fosse in realtà un filo che le tiene legate a qualcuno che hanno perso?

La signora Dragu non era pazza. Era spezzata.
E Marcus? Non era solo un inquilino. Era un ponte.
L’unico che l’aveva guardata e le aveva detto: “Ti vedo.”

Questa è la vera svolta.
Che proprio la persona da cui tutti ti mettono in guardia potrebbe essere quella che ti insegna di più.

Così, ogni anno, nel giorno della sua morte, mettiamo quel disco. La traccia 3. A tutto volume.
Non per ricordare il rumore, ma la storia dietro di esso.

E forse è proprio questo il messaggio.
Non avere fretta di silenziare chi, a prima vista, sembra disturbante.
A volte stanno solo cantando l’unica canzone che conoscono. Quella che li ha tenuti in vita quando tutto il resto svaniva.

E se ti capita l’occasione… sii tu quello che ascolta.



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