Qualche anno fa ho perso la gamba sinistra in un incidente. Un giorno, mentre viaggiavo in treno, mi sono seduto in un posto riservato ai disabili. Dopo alcune fermate, una donna si è avvicinata dicendomi che dovevo alzarmi perché ne aveva bisogno lei. Le risposi che mi dispiaceva, ma che avevo anch’io necessità di quel posto. Cominciò ad agitarsi in modo aggressivo. Mi sono nuovamente scusato, spiegandole che davvero ne avevo bisogno. Lei allora se n’è andata, ma è rimasta davanti a me, con le braccia conserte e lo sguardo accusatorio, quasi avessi commesso un crimine.
Era estate. Faceva un caldo infernale e il treno era strapieno. Tutti sudavano come se avessero addosso una seconda pelle. Quel giorno portavo la protesi, coperta da pantaloni larghi: a un’occhiata superficiale sembravo “normale”. Evidentemente per lei non apparivo “abbastanza disabile”.
Cominciò a borbottare ad alta voce: «Certe persone fingono di essere disabili. Che vergogna». Inizialmente non risposi. Ho imparato che discutere in pubblico peggiora solo le cose. Ma poi mi colpì con un dito sulla spalla, con forza.
«Non hai un po’ di decenza?», disse bruscamente. «Stai occupando un posto destinato a chi ne ha davvero bisogno».
Fu allora che sollevai lentamente la gamba dei pantaloni, mostrando il luccichio metallico della mia protesi. Il suo volto impallidì per un attimo, poi arrossì di colpo.
«Oh. Be’… comunque io devo sedermi», replicò.
A quel punto tutti i passeggeri intorno stavano seguendo la scena. Un uomo con un passeggino la guardò scandalizzato, una ragazza adolescente bisbigliava all’amica, chiaramente registrando.
«Mi dispiace, signora» dissi ancora. «Ma sono stato in piedi tutta la mattina. Il moncone si sta gonfiando. Non mi alzo.»
Lei sbuffò e si allontanò verso la testa del treno.
Credevo fosse finita lì. Ma poco dopo la sentii parlare con il controllore a bassa voce, indicando verso di me. L’uomo, basso, con occhiali grandi e una cartellina in mano, si avvicinò. Mi preparai al peggio.
«Signore, questa signora sostiene che lei rifiuti di cedere un posto prioritario».
«È vero» risposi calmo. «Ho perso una gamba tre anni fa in un incidente. Ho bisogno anch’io di questo posto».
Lui abbassò lo sguardo sulla mia gamba, poi tornò a guardarmi. «Mi permette di dare un’occhiata, solo per confermare?»
Non mi piaceva, ma capivo. Annuii e sollevai di nuovo il pantalone. Rimase un attimo interdetto.
«Bene» disse infine, rivolgendosi alla donna. «Signora, lui ha diritto. Deve cercare un altro posto o restare in piedi».
Lei esplose: «Come sarebbe? È salito a piedi sul treno! Non ha neanche un bastone! Questi giovani truffano sempre il sistema!» Io rimasi senza parole. Non ero neppure così giovane: avevo 37 anni. Ma lei continuò ad accusare, parlando dei suoi dolori alla schiena, delle “disabilità invisibili” mai rispettate (ironico, visto il contesto), e di come le “persone vere” come lei venissero ignorate.
Il controllore alzò una mano: «Non sto discutendo con lei, signora. O si calma o scende alla prossima fermata».
Lei sembrava sul punto di esplodere, ma rimase in silenzio fino alla fine del viaggio, limitandosi a fissarmi e borbottare. Quando arrivai alla mia fermata, cercò persino di farmi lo sgambetto mentre mi alzavo. Mi reggerei al palo e tirai dritto.
Credevo fosse finita lì. Invece, due settimane dopo ricevetti una telefonata: era la compagnia ferroviaria.
Avevo a malapena creduto alle mie orecchie: quella donna aveva sporto una denuncia contro di me. Aveva fornito la mia descrizione, l’orario e il numero del treno. Sosteneva che avessi abusato del regolamento dei posti riservati e che l’avessi addirittura molestata quando me lo aveva chiesto “educatamente”.
Per fortuna, il controllore aveva scritto una relazione: molto più dettagliata di quanto ricordassi. Aveva riportato che la donna era stata “verbalmente offensiva” e “aggressivamente conflittuale”. Mi rassicurarono che la denuncia non avrebbe avuto seguito.
Eppure rimasi scosso. Sapere che qualcuno potesse ribaltare così la realtà e mettere in pericolo un innocente mi lasciò senza parole. Evitai quella linea ferroviaria per un po’.
Tre mesi dopo, concluse alcune sedute di fisioterapia con un nuovo piede protesico, decisi di riprendere quel treno, convinto che la sfortuna non potesse ripetersi due volte.
Salgo. Stesso orario, stessa linea. A metà viaggio… la vedo. Stessi capelli arruffati, stessa espressione amara. Lei non mi notò subito. Io sì.
Questa volta sedeva proprio su un posto prioritario, con i piedi allungati su quello accanto, impedendo ad altri di sedersi. Un uomo anziano con il bastone le chiese se poteva accomodarsi. Lei lo ignorò. Solo quando un passeggero intervenne dicendo: «Signora, quel signore ha bisogno», lei si alzò di scatto e gridò: «HO UN PROBLEMA DI SALUTE!» Nessuno replicò. L’uomo si trascinò più avanti.
Rimasi a guardare. Aspettai. Poi presi il telefono e registrai la scena. Quella sera inviai il video al servizio reclami della compagnia ferroviaria. Non chiesi di bandirla, ma di prenderla in considerazione.
Passò una settimana. Poi un’altra. Pensavo non sarebbe successo nulla. Invece ricevetti una nuova chiamata dallo stesso addetto che aveva seguito il mio caso.
«Signor D’Souza, si ricorda della questione di qualche mese fa? Ecco, quella donna non ha molestato solo lei. Ha presentato quattro denunce in tre mesi, tutte contro passeggeri nei posti prioritari, accusandoli di averle urlato contro. Ma noi avevamo video e testimonianze. In un caso ha persino spinto una donna col deambulatore. Quello è stato troppo.»
Risultato? Fu bandita dalla linea per sei mesi e obbligata a seguire un corso di gestione dei conflitti.
Provai sentimenti contrastanti: parte di me pensava fosse giustizia. Un’altra parte si chiedeva cosa avesse vissuto per covare così tanta rabbia.
Sei mesi dopo la rividi. Non in treno, ma davanti al centro di riabilitazione dove faccio volontariato due volte a settimana, aiutando chi è appena passato alle protesi. Era seduta sul marciapiede, piangendo in silenzio. Aveva la gamba sinistra fasciata.
Esitai. Passai oltre. Poi mi fermai. Tornai indietro.
«Sta bene?» le chiesi.
Lei alzò lo sguardo, sorpresa. Mi riconobbe e il suo volto si sciolse in lacrime. «Sono caduta» disse. «Ho preso una brutta storta scendendo le scale. Cammino a fatica. Ero qui per una visita ma il mio passaggio non è venuto a prendermi. Aspetto l’autobus da più di un’ora.»
Annuii. «Vuole che chiami qualcuno? O posso accompagnarla dentro, c’è una panchina e dell’acqua.»
Mi fissava come se parlassi un’altra lingua. «Vuole aiutarmi? Dopo tutto quello che è successo?»
«Non sono qui per punirla» risposi. «Forse la vita vuole solo mostrarle cosa significa».
Lei tacque. Accettò il mio aiuto.
Dentro le trovai una sedia e una borsa del ghiaccio. Mentre compilava dei moduli all’accettazione, si voltò. «Mi dispiace» disse piano.
E stavolta le credetti.
Quel momento mi rimase addosso. Perché, a essere sinceri, non pensavo di avere tanta grazia dentro di me. Dopo l’incidente c’erano stati mesi di rabbia e odio verso il mondo. Ma piano piano, con gruppi di supporto, terapia ed esperimenti, avevo ricostruito non solo la forza, ma anche la pazienza.
Vederla lì, la donna che un tempo mi aveva accusato di fingere, improvvisamente vulnerabile… mi fece cambiare prospettiva.
Non avrei voluto vederla soffrire. Avevo solo bisogno che capisse.
E forse la vita le aveva dato quella possibilità: assaggiare cosa significhi dover chiedere aiuto e non essere creduti.
Non parliamo oggi. L’ho rivista una sola volta al centro. Mi ha salutato con un sorriso. Le ho fatto un cenno. Tanto bastava.
Oggi sono conosciuto come “quello con la gamba” al centro. I nuovi arrivati mi vedono camminare e pensano: “Forse ce la posso fare anche io”. A volte racconto la storia del treno, di quando mi accusarono di fingere. Strappa sempre un sorriso, ma lascia anche una lezione.
Perché non sappiamo mai davvero cosa stia portando o nascondendo una persona.
Con quella donna siamo partiti col piede sbagliato — gioco di parole involontario — ma alla fine tutti e due abbiamo ricavato qualcosa.
Lei ha guadagnato prospettiva.
Io ho trovato chiusura.
E un ricordo: l’empatia non è sempre meritata, ma è sempre potente.



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