​​


Ogni mattina appare un oggetto sul mio comodino. All’inizio sembrava un gioco, poi ho capito la verità



Quella mattina mi sono svegliata con la sensazione netta di non essere sola in camera.



Non era paura, non ancora. Era più una percezione vaga, come se qualcuno mi stesse osservando da un angolo buio, appena fuori dal mio campo visivo.

Ho aperto gli occhi piano, abituandomi alla luce pallida che filtrava tra le persiane. La stanza era vuota. Il silenzio, rotto solo dal ticchettio dell’orologio, sembrava più denso del solito.

Poi l’ho visto.

Sul comodino, proprio accanto alla lampada, c’era un piccolo oggetto che non avevo mai visto prima. Un portachiavi in metallo, a forma di conchiglia. Lucido, pesante. Non era mio. Non era di Luca, il mio compagno. Non avevo idea di come fosse finito lì.

Lo presi in mano. Freddo. Troppo freddo, come se fosse stato lasciato lì da poco, magari dopo essere stato all’aperto in pieno inverno.

Luca dormiva ancora, voltato dall’altra parte. Avrei potuto svegliarlo per chiedergli se sapeva qualcosa, ma non lo feci. Per qualche motivo, sentivo che non volevo parlarne. Non subito.

Il resto della giornata scivolò via tra lavoro e faccende. Cercai di dimenticare l’episodio, convincendomi che forse l’oggetto era caduto dalla borsa di qualcuno che era stato a casa nostra. Un ospite, un amico. Anche se… non riuscivo a ricordare nessuna visita recente.

La sera, quando rientrai in camera, il portachiavi non c’era più.

“Luca, ti ricordi quell’affare a forma di conchiglia sul comodino? L’hai preso tu?”

“Che affare?” mi guardò con aria confusa. “No, non ho visto niente.”

Lo fissai per un istante, cercando un segno che stesse scherzando. Ma il suo sguardo era sincero.

Il giorno dopo, sul comodino, c’era un altro oggetto.

Un biglietto ferroviario stropicciato, datato 17 marzo 1987. Milano Centrale → Genova Brignole.

Io nel 1987 non ero nemmeno nata.

Quella volta, la paura cominciò a farsi strada. Lo presi, lo girai tra le dita. L’inchiostro era un po’ sbiadito, ma leggibile. C’era persino una macchia di quello che sembrava caffè sul bordo.

Cercai di trovare una spiegazione razionale: forse Luca aveva trovato vecchie cose in cantina e le aveva messe lì per scherzo? Ma sapevo che non era il suo genere. E poi… perché non ammetterlo?

Decisi di fare un esperimento.

La terza notte, prima di andare a dormire, svuotai completamente il comodino. Niente lampada, niente libri, nemmeno l’orologio. Solo il piano di legno nudo.

Mi addormentai tesa, svegliandomi più volte per controllare. Nulla.

Ma al mattino, c’era una chiave arrugginita. Lunga, pesante, con un’etichetta legata da uno spago: “14”.

Da quel momento, cominciò a diventare un appuntamento fisso. Ogni mattina, un oggetto diverso. Alcuni banali — una monetina svedese, un bottone di madreperla — altri inquietanti: una fotografia in bianco e nero di una bambina che piangeva, un foglio strappato con scritto “Non aprire”, un frammento di specchio.

Non riuscivo a capire il senso.

Erano ricordi di qualcuno? Messaggi? O solo un gioco crudele di una mente malata che in qualche modo riusciva a entrare in casa nostra?

A Luca non raccontai nulla, almeno all’inizio. Non volevo sembrare paranoica. Ma quando, una mattina, trovai un piccolo registratore portatile — di quelli con le cassette — mi convinsi che dovevo dirglielo.

La cassetta era già inserita. Premetti play.

Il nastro frusciò, poi una voce maschile, roca e lenta, disse solo:

“Guardati alle spalle.”

Mi voltai di scatto. Dietro di me c’era solo la finestra, e fuori il cortile vuoto.

Luca arrivò in camera proprio in quel momento. Gli mostrai tutto.

Mi ascoltò senza interrompermi, ma alla fine disse: “Forse è uno scherzo di cattivo gusto. Magari qualcuno ha le chiavi di casa.”

“E chi potrebbe essere?”

“Non lo so. Ma cambiamo la serratura.”

Lo facemmo. Ma il giorno dopo, c’era un nuovo oggetto: una piuma nera, infilata in un bicchiere d’acqua.

Cominciai a non dormire più. Mi svegliavo nel cuore della notte per controllare il comodino, e non c’era mai niente. Gli oggetti apparivano sempre all’alba, come se venissero depositati tra il mio ultimo sogno e il primo respiro del mattino.

Un venerdì, trovai qualcosa che mi fece gelare il sangue.

Era una polaroid. Mi ritraeva mentre dormivo. Il comodino era visibile, vuoto. Sullo sfondo, una figura sfocata in piedi accanto al letto.

Mostrai la foto a Luca, ma lui reagì in modo strano: “Magari sei tu che ti muovi nel sonno, ti fai gli scherzi da sola.”

Rimasi a guardarlo, incredula. “Pensi davvero che possa scattarmi una foto mentre dormo?”

Scrollò le spalle, evitando il mio sguardo.

Qualcosa in lui cominciava a sembrarmi… distante. Come se sapesse più di quanto dicesse.

Il sabato notte, decisi di restare sveglia. Mi sdraiai fingendo di dormire, il cuore che batteva a mille.

Verso le 4, sentii un fruscio leggero, come di tessuto che sfiora il legno. Aprii gli occhi di un millimetro.

C’era qualcuno.

Non riuscivo a vederne il volto, ma era alto, magro, vestito di scuro. Stava in piedi, immobile, come se stesse aspettando che mi svegliassi.

Rimasi paralizzata. Poi, senza un rumore, posò qualcosa sul comodino e uscì dalla stanza.

Balzai in piedi e corsi dietro di lui, ma il corridoio era vuoto. La porta di casa chiusa a chiave dall’interno.

Sul comodino, c’era un diario.

Il diario era vecchio, la copertina in pelle consumata. All’interno, pagine fitte di una calligrafia nervosa, a volte quasi illeggibile. Non c’era un nome, ma una data: 1965.

Sfogliai, leggendo frasi spezzate:

“Non mi ascoltano.”

“Lui viene ogni notte.”

“La chiave 14 aprirà la stanza.”

Mi ricordai della chiave arrugginita. La presi dal cassetto e la tenni stretta.

Passai il resto del giorno a cercare in casa un posto dove potesse servire. Niente. Poi pensai alla cantina condominiale. C’erano vecchie porte che non avevo mai aperto.

Nel seminterrato, trovai una porta con il numero 14 inciso su una targhetta di ottone. La chiave entrò, ma fece resistenza. Con uno scatto, si aprì.

Dentro, odore di polvere e legno marcio. Scatoloni, vecchi mobili, e… un comodino identico al mio. Sul piano, un singolo oggetto: una clessidra rotta.


Portai la clessidra in casa. Non so perché, ma sentivo che era importante.

Quella notte sognai una donna dai capelli scuri, seduta sul bordo del mio letto. Mi porgeva la clessidra dicendo: “Quando la sabbia finirà, saprai la verità.”

Mi svegliai di colpo, con la sensazione che lei fosse ancora lì.

La sabbia, nella clessidra, era quasi finita.

Negli ultimi giorni, gli oggetti cambiarono natura.

Non erano più reperti casuali, ma cose che mi appartenevano: una lettera che avevo scritto e mai spedito, un orecchino perso anni fa, la chiave della mia vecchia casa d’infanzia.

Era come se qualcuno stesse rovistando nella mia vita, pezzo dopo pezzo, e restituendomi ciò che avevo dimenticato.

Poi, una mattina, il comodino era vuoto. Nessun oggetto.

E così per tre giorni di fila. Cominciai a sentirmi stranamente inquieta per quell’assenza. Come se avessi bisogno che qualcosa apparisse.

Il quarto giorno, trovai una sola frase scritta su un foglio:

“Ora tocca a te.”

Quella notte, mi svegliai in piedi accanto al letto, con in mano un vecchio orologio da tasca. Sul comodino, vuoto, la lampada spenta.

Non ricordavo di essermi alzata. Non ricordavo di aver preso l’orologio.

Eppure, sapevo esattamente dove l’avevo trovato: nella stanza 14.

Non ho più cercato di capire.

Ogni mattina, ora, lascio io qualcosa sul comodino.

Non so per chi sia. Non so da dove venga.

Ma so che qualcuno, da qualche parte, si sveglierà e troverà un oggetto che non era lì la sera prima.

E forse, sentirà la mia presenza.



Add comment