Crescendo, non ho mai visto mio padre come fanno la maggior parte delle ragazze. Quando ero all’asilo, lui era già alla fine dei suoi sessant’anni. Capelli grigi, occhi stanchi, ginocchia rigide. Non mi lanciava in aria né mi rincorreva in giardino. Era sempre seduto: a leggere il giornale, a sistemare radio o a sonnecchiare sulla poltrona.
Non ha mai terminato le superiori. Diceva di aver lasciato la scuola in seconda per aiutare suo padre in officina. All’epoca, forse, aveva un senso. Ma per me, ragazzina delle classi d’onore e della squadra di atletica, era solo… imbarazzante.
Odiavo le riunioni genitori-insegnanti. Faceva domande strane, con quella voce lenta e misurata, e i professori mi lanciavano uno sguardo come a dire: “È tuo padre?”
Non gliel’ho mai detto, ma non ne ero orgogliosa. Né dei suoi vestiti, né delle sue storie, neanche del fatto che si fosse fatto in quattro per mantenerci dopo che mamma se n’era andata. Continuavo a desiderare che fosse più giovane, più alla moda, più simile agli altri papà.
Comunque, oggi era il giorno della mia laurea. La cerimonia era lunga, e non mi aspettavo che venisse. Odia la folla. Odia restare seduto troppo a lungo.
Ma poi, durante il momento in cui gli studenti potevano nominare qualcuno per dire qualche parola, è stato chiamato un nome che io non avevo indicato. Il mio.
E mio padre si è alzato.
Ha camminato lentamente verso il microfono, tenendo in mano un foglio accartocciato. Tutti si sono zittiti. Persino il rettore sembrava confuso.
Poi si è schiarito la voce e ha detto:
“Non ho una laurea. Non conosco parole difficili. Ma è da 22 anni che aspetto di dire questo.”
E giuro… il cuore mi è caduto nello stomaco.
“Non ho potuto finire la scuola,” disse con la voce leggermente tremante, “ma non volevo che le cose andassero così anche per lei. Ricordo quando l’ho tenuta in braccio il giorno in cui è nata e ho pensato: farà cose che io non ho mai potuto fare. E così è stato.”
Rimasi congelata sulla mia sedia, sentendo gli sguardi di tutti passare da lui a me. Volevo scomparire. Volevo correre lì e trascinarlo giù dal palco. Ma non riuscivo a muovermi.
Continuò:
“Quando sua madre se n’è andata, siamo rimasti solo noi due. Non sapevo come si facevano le trecce, né come si compravano le scarpe per la scuola. Una volta le ho messo in cartella un cacciavite pensando che fosse il nome di un panino,” disse ridendo, e qualcuno tra il pubblico rise con lui.
Ma poi tornò serio:
“So di non essere stato il tipo di padre che probabilmente avrebbe voluto. Ero vecchio. Ero stanco. Non riuscivo ad andare a tutti i saggi o alle partite di calcio. Ma ogni volta che portava a casa una pagella, o riceveva una lettera da un’università… mi chiudevo in camera e piangevo.”
Il mio petto si strinse.
“Piangevo perché non capivo nemmeno la metà di quello che faceva… ma sapevo che era importante. Sapevo che stava costruendo una vita migliore della mia.”
Poi piegò in due il foglio.
“E oggi non sono qui per metterla in imbarazzo. Sono qui per dire che, in tutta la mia vita, non sono mai stato così orgoglioso di qualcosa come lo sono di te, Yara.”
Fece un passo indietro, annuì verso il microfono come se fosse una persona, e lentamente tornò al suo posto.
Non applaudii. Non ci riuscivo. Rimasi seduta con le mani in grembo, il viso in fiamme, gli occhi che bruciavano.
Dopo la cerimonia, tutti si accalcarono nell’atrio per scattare foto e lanciare i cappelli. Lo trovai seduto da solo, vicino alle macchinette, mentre sorseggiava una bottiglietta tiepida di root beer. Mi guardò, un po’ nervoso.
“Sei arrabbiata?” chiese.
Scossi la testa e mi sedetti accanto a lui. “No,” sussurrai. “È solo che… non sapevo che provassi tutto questo.”
Annui piano. “So che a volte non ci sono stato come avevi bisogno. Avevo paura. Paura di peggiorare le cose se mi fossi sforzato troppo.”
Restammo in silenzio per un minuto.
Poi tirò fuori dalla giacca una busta piegata. “Questa è per te. Non aprirla subito.”
“Cos’è?”
“Una cosa su cui ho lavorato,” disse. “Da un po’ di tempo.”
Quando tornai al mio appartamento quella sera, aprii la busta. Dentro c’era una lettera scritta a mano. E una fotocopia di un diploma GED.
Era datata due mesi prima.
Nella lettera c’era scritto:
“Ho pensato che se tu eri abbastanza coraggiosa da inseguire i tuoi sogni, potevo almeno finire i miei. L’ho fatto per me. Ma soprattutto per te. Ora ci siamo laureati entrambi, quest’anno.”
Piansi più di quanto avessi fatto durante tutta la giornata.
Quella notte postai una foto del suo diploma accanto al mio. Con la didascalia:
Mai troppo tardi. Fiera di te, papà.
Ha ricevuto centinaia di like e messaggi da persone che dicevano di essersi riviste nei propri genitori.
E se c’è una cosa che ho imparato, è questa:
Non possiamo scegliere che tipo di persone ci crescono. Ma possiamo decidere cosa imparare da loro.
Mio padre non mi ha raccontato favole prima di dormire, né fatto discorsi motivazionali. Ma mi ha dato la tenacia. Quella forza silenziosa e ostinata che non ha mai avuto bisogno di applausi.
E questo vale più di qualsiasi diploma.



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