La Corte d’Assise d’appello di Milano ha emesso una sentenza che ha ridotto la pena per Alessia Pifferi, la donna di 40 anni accusata di aver abbandonato la figlia di 18 mesi in casa per una settimana, portando alla morte della bambina per stenti. La condanna è stata fissata a 24 anni di reclusione, escludendo l’aggravante dei futili motivi e riconoscendo alcune attenuanti generiche. Questa decisione segna un significativo cambiamento rispetto al processo di primo grado, dove Pifferi era stata condannata all’ergastolo per omicidio volontario aggravato da futili motivi e vincolo di parentela, senza alcuna attenuante.
L’avvocata di Pifferi, Alessia Pontenani, ha commentato la sentenza dicendo: “Non è quello che speravamo, ma va bene. Almeno non è stato confermato l’ergastolo.” Tuttavia, la famiglia di Pifferi, che si era costituita parte civile, ha espresso forte delusione. La sorella, Viviana, in lacrime ha chiesto: “Ma dov’è la giustizia?”
Durante il processo, l’accusa aveva descritto le condizioni in cui la bambina era stata lasciata come “disumane”. La requisitoria aveva evidenziato come la piccola fosse rimasta sola per cinque giorni e mezzo nel caldo di luglio a Milano, senza cibo, acqua, aria condizionata e con le finestre chiuse. L’accusa ha sottolineato la difficoltà di accettare che una madre possa ignorare il benessere della propria figlia, affermando che “è difficile accettare che una persona in grado di intendere e di volere possa fare una cosa del genere.”
In entrambi i procedimenti penali, Alessia Pifferi è stata ritenuta pienamente capace di intendere e di volere al momento dei fatti. La recente perizia disposta dalla Corte, condotta dai periti Giacomo Filippini, Stefano Benzoni e Nadia Bolognini, ha confermato questa valutazione, ribadendo quanto emerso nella precedente analisi del perito Elvezio Pirfo.
Tuttavia, la difesa ha contestato tali valutazioni. La psicologa Roberta Bruzzone, consulente delle parti civili, ha sostenuto la tesi della piena capacità di intendere e di volere di Pifferi. D’altra parte, il professor Pietro Pietrini, consulente della difesa, ha argomentato che la donna potrebbe essere affetta da un “disturbo del neurosviluppo di tipo intellettivo”, suggerendo quindi l’esistenza di un vizio parziale di mente, evidenziato dai suoi scarsi risultati scolastici e dall’episodio del parto avvenuto nel bagno di casa del compagno, senza che lui fosse a conoscenza della gravidanza.
Nel corso della sua arringa difensiva, l’avvocata Pontenani ha affermato: “Alessia Pifferi ha fatto una cosa orribile, ma Alessia Pifferi è una ritardata mentale, perché tutti i test ci dimostrano questo.” Ha continuato sostenendo che la donna ha avuto problemi fin dall’infanzia e viene definita portatrice di handicap, descrivendola come “un vaso vuoto” e affermando che “non è una persona normale, non è come noi. Racconta le bugie di una bambina.”
La vicenda ha suscitato grande attenzione mediatica e discussioni sul tema delle responsabilità genitoriali e delle condizioni in cui vivono alcuni bambini. La sentenza di appello ha sollevato interrogativi non solo sulla giustizia per la piccola vittima, ma anche sulle implicazioni legali riguardanti le capacità mentali e il benessere dei minori. Mentre la famiglia di Alessia Pifferi si prepara a una battaglia legale continua, la comunità e le istituzioni rimangono vigili su un caso che ha toccato le corde più sensibili della società.



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