Sei mesi di lavoro in un ristorante di Genova, con orari estenuanti che iniziavano alle 10 del mattino e si prolungavano fino alle 3 di notte. È la storia di Martina, oggi vicina ai 30 anni, che ha deciso di condividere con Fanpage.it i dettagli di un’esperienza che definisce “traumatica”. All’epoca dei fatti, aveva appena compiuto 18 anni ed era alla sua prima esperienza lavorativa. “Ero poco più che una ragazzina e non avevo idea di cosa mi aspettasse. Quei mesi mi hanno segnato profondamente”, ha dichiarato in un’intervista telefonica.
Il lavoro, iniziato durante la stagione estiva con l’afflusso dei turisti, si è presto trasformato in un incubo. Non esisteva un contratto che regolasse le sue ore lavorative, né tantomeno tutele adeguate. “Quando c’erano i controlli dell’Ispettorato del Lavoro, mi obbligavano a uscire dalla porta sul retro per non farmi trovare”, ha raccontato Martina, sottolineando la precarietà della situazione.
La retribuzione mensile era di 800 euro per turni che coprivano 16 ore al giorno. Nonostante gli accordi prevedessero almeno un giorno di riposo e una pausa pranzo, queste condizioni non venivano rispettate. “In teoria avrei dovuto fermarmi per un’ora tra le 15 e le 16 e approfittare di quel momento per mangiare. Ma nella realtà, non mi è mai stato concesso né il riposo né la pausa”, ha spiegato. Il risultato di questa routine era una stanchezza fisica e mentale che la portò a perdere diversi chili. “Una volta sono svenuta per un calo di pressione e mi mandarono a casa per qualche ora. Però, poco dopo, la mia datrice di lavoro mi chiamò per chiedermi di tornare a fare il turno serale”, ha aggiunto.
Dopo sei mesi, Martina decise di lasciare quel posto e cercare un’alternativa, trovando lavoro in un altro ristorante situato nella stessa via. Anche in questo caso, però, le condizioni lavorative erano tutt’altro che ideali. “Gli orari erano meno pesanti rispetto al primo ristorante, ma i maltrattamenti erano frequenti”, ha ricordato. La paga era ancora in nero e si aggirava intorno ai 350 euro al mese. “I titolari erano molto duri con noi. Ci rimproveravano davanti ai clienti e arrivavano persino a strattonarci”, ha raccontato. Un episodio particolarmente umiliante rimane impresso nella sua memoria: “Un giorno mi mandarono a casa perché avevo indossato un pantalone al ginocchio con la calzamaglia, dato che avevo finito i pantaloni neri richiesti per il lavoro. Mi insultarono davanti a tutti, chiamandomi prostituta”.
Alla fine Martina decise di abbandonare anche quel secondo impiego, consapevole che quelle condizioni lavorative non erano sostenibili. Con il passare degli anni, la sua situazione è cambiata: oggi lavora nel settore amministrativo per aziende, ma l’incertezza contrattuale rimane un problema costante. “I contratti vengono rinnovati ogni tre mesi e non è facile vivere con questa precarietà”, ha spiegato.
La pandemia di Covid-19 ha ulteriormente aggravato le difficoltà economiche della giovane e del suo compagno. “Prima della pandemia guadagnavamo insieme circa 1.400 euro al mese. Con le spese quotidiane, le bollette e un affitto di 550 euro, ci rimanevano appena 100 euro alla fine del mese”, ha raccontato.
Nonostante il miglioramento delle condizioni lavorative rispetto al passato, la storia di Martina mette in luce problemi ancora presenti nel mondo del lavoro: sfruttamento, precarietà e mancanza di tutele adeguate continuano a colpire molti giovani che si affacciano al mercato lavorativo. Queste esperienze sottolineano l’importanza di interventi mirati per garantire diritti e dignità a chi lavora.



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