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La madre di Alberto Trentini, da otto mesi detenuto in Venezuela: “Silenzio assordante, nessuna risposta dal governo”



Sono trascorsi otto mesi dall’arresto di Alberto Trentini, cooperante italiano imprigionato in Venezuela dal novembre scorso. La madre, Armanda Trentini, ha nuovamente sollecitato le autorità italiane affinché si attivino per riportarlo a casa, denunciando un silenzio istituzionale che definisce “insostenibile”. Durante un sit-in a Roma, la donna ha espresso la sua frustrazione per l’assenza di azioni concrete da parte del governo italiano, paragonando la situazione di suo figlio a quella di un cittadino svizzero, recentemente liberato grazie all’intervento delle autorità del suo Paese.



“Oggi sono otto mesi esatti che mio figlio Alberto è in prigione, ma tutto tace e tace anche la nostra presidente del Consiglio. Questo silenzio per me e la mia famiglia è insostenibile, il nostro Governo deve attivarsi come ha fatto quello svizzero con il compagno di prigionia di mio figlio che è stato liberato da poco e ha raccontato alla stampa le terribili condizioni di detenzione in cui si trova ancora Alberto”, ha dichiarato Armanda Trentini. La madre del cooperante ha sottolineato l’urgenza di un intervento diplomatico efficace, simile a quelli adottati in altri casi internazionali.

La donna ha partecipato al sit-in organizzato a piazzale Clodio, in concomitanza con l’udienza sul caso dell’omicidio di Giulio Regeni, per sensibilizzare ulteriormente l’opinione pubblica e le istituzioni. “Non possiamo più aspettare, le nostre istituzioni dimostrino di avere a cuore la vita di un connazionale e si adoperino con urgenza ed efficacia per riportare a casa nostro figlio mettendo in campo qualsiasi strumento di diplomazia come è stato fatto in altri casi: ogni giorno di inerzia in più corrisponde a indicibili sofferenze per Alberto e per noi. Contatti non ce ne sono e noi aspettiamo con fiducia che qualcuno faccia ciò che è necessario. Otto mesi sono troppi e dobbiamo ribellarci”, ha aggiunto Armanda Trentini davanti alle telecamere dei giornalisti presenti.

Un breve contatto tra Alberto Trentini e la sua famiglia si era verificato due mesi fa, quando il cooperante aveva telefonato alla madre dopo mesi di silenzio. Da allora, però, non ci sono stati ulteriori aggiornamenti sulla sua situazione né segnali di intervento da parte delle autorità italiane.

Al sit-in erano presenti anche altre figure di spicco impegnate nella difesa dei diritti umani, tra cui don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e dell’associazione Libera. Il sacerdote ha commentato duramente la gestione della vicenda da parte delle istituzioni: “Troppi silenzi hanno accompagnato questi mesi. Troppe prudenze, troppe deleghe e, soprattutto, troppe ambiguità. Torneremo a far risuonare forte la nostra voce in nome di Alberto Trentini. Alberto è un nome che non porta in sé nessuna colpa. Anzi porta con sé la generosità di andare nel mondo, nei contesti più difficili, a sostegno dei più fragili”.

Don Luigi Ciotti ha inoltre ricordato altri casi emblematici legati alla difesa dei diritti umani, come quelli di Giulio Regeni e Mario Paciolla, sottolineando l’importanza di agire tempestivamente per evitare ulteriori tragedie. “Essere impegnati per i diritti umani non può trasformarsi in una colpa. È passato troppo tempo, per Giulio Regeni e per Mario Paciolla non siamo arrivati in tempo: allora chiediamo per loro verità e giustizia per la loro morte. Per Alberto siamo in tempo per chiedere rispetto per la sua vita, la libertà e la verità. È passato troppo tempo, stiamo perdendo tempo. È un silenzio assordante. Chi ha delle responsabilità in questo Paese usi la faccia”, ha concluso.

La vicenda di Alberto Trentini si inserisce in un contesto più ampio di cooperanti internazionali arrestati o vittime di violenze nei Paesi in cui operano. La sua detenzione in un carcere di massima sicurezza venezuelano continua a destare preoccupazione tra familiari e sostenitori, soprattutto alla luce delle testimonianze sulle condizioni critiche vissute dai detenuti.



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