Il recente inserimento della cucina italiana nella lista del patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO ha scatenato reazioni di ogni tipo, ma poche sono state così accese come quella del noto giornalista britannico Giles Coren. Con uno stile provocatorio che lo caratterizza, Coren ha definito il riconoscimento “prevedibile, servile e irritante”, lanciando un attacco a tutto campo non solo contro i piatti italiani, ma soprattutto contro il mito romantico che li circonda.
Secondo il critico, la fama mondiale della cucina italiana sarebbe in gran parte un’invenzione culturale. Una narrativa costruita, a suo dire, da una certa élite anglosassone che, dagli anni ’90, ha iniziato a idealizzare l’Italia come un idilliaco rifugio rurale. Un luogo dove tutto sembra più autentico, semplice e genuino, proiettando su di esso un’esotismo fuori dal tempo. Il bersaglio di Coren, quindi, non è tanto il cibo in sé, quanto lo sguardo stereotipato con cui viene spesso consumato e celebrato all’estero, trasformando un’intera cultura gastronomica in una cartolina per turisti colti.
Il suo articolo, un vero e proprio monologo sarcastico, procede per accuse e gag volutamente eccessive. Attacca celebri chef come Massimo Bottura, la cui Osteria Francescana è stata più volte in cima alla lista dei migliori ristoranti del mondo, suggerendo che anche le sue parole sull’unità culturale del cibo italiano siano retorica. Non risparmia critiche nemmeno all’esperienza turistica diretta, descrivendo ristoranti italiani come cari e il personale come scortese, in un crescendo di iperbole.
Il colpo di scena, tuttavia, arriva in chiusura. Abbandonata la polemica sull’Italia, Coren ribalta il discorso e tesse un improbabile elogio della cucina britannica, proposta come vera candidata al titolo UNESCO. La sua lista “eroica” include toast bruciati, spaghetti al ketchup e salsicce in scatola, descritti con affetto grottesco come pilastri di una tradizione culturale unica e genuina. È qui che la provocazione diventa palese autoironia, rivelando forse più insicurezza che disprezzo.
C’è, in fondo, qualcosa di paradossale in questo sfogo. Perché mentre il critico si sforza di smontare la retorica del cibo italiano, finisce involontariamente per dimostrarne la centralità: solo di ciò che è profondamente radicato e universalmente amato si discute con tale veemenza. Il cibo italiano sopravviverà anche a questo attacco, come è sopravvissuto per secoli ad ogni tentativo di banalizzazione. Perché alla fine, al di là delle mode e delle caricature, resta un linguaggio quotidiano di gesti, sapori e condivisione che il semplice sarcasmo non può cancellare. La tavola, come la storia, ha una pazienza infinita.



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