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Testimone di Geova dice no alla trasfusione, il medico interviene lo stesso: possibile denuncia in arrivo



Un medico del Policlinico Umberto I di Roma si trova al centro di un dibattito giuridico di rilevanza nazionale dopo aver praticato una trasfusione di sangue a una paziente che aveva espressamente rifiutato tale trattamento per motivi religiosi. La paziente, una donna di circa 40 anni e madre di famiglia, aderente alla fede dei Testimoni di Geova, ha opposto un netto rifiuto a qualsiasi trasfusione di sangue, nonostante le sue condizioni critiche rendessero l’intervento chirurgico non procrastinabile.  Il chirurgo, di fronte a questa situazione estrema, ha optato per la trasfusione, consapevole del potenziale rischio di un procedimento penale.



Questo caso riapre il delicato dibattito sul limite dell’autodeterminazione del paziente quando la vita è in pericolo.  Da un lato, si pongono i diritti fondamentali alla libertà religiosa e al rifiuto delle cure mediche, sanciti dalla Costituzione italiana. Dall’altro, si evidenzia il dovere del medico, sancito dal Giuramento di Ippocrate, di agire “per il bene del malato secondo scienza e coscienza”.  In questo caso, tali principi si sono contrapposti in modo netto.

L’episodio si è verificato il 18 dicembre scorso, quando la paziente si è presentata al pronto soccorso con intensi dolori addominali.  Durante l’anamnesi, ha riferito di aver precedentemente subito un intervento di bypass gastrico. Gli accertamenti diagnostici hanno evidenziato la necessità di un intervento chirurgico urgente.

La paziente ha immediatamente espresso un rifiuto categorico a qualsiasi trasfusione di sangue.  Il medico, consapevole della gravità della situazione, ha interrotto l’intervento e ha contattato il magistrato di turno della Procura di Roma per un confronto diretto. La Procura ha confermato che la Corte di Cassazione ha ripetutamente affermato il diritto costituzionale dei Testimoni di Geova di rifiutare le trasfusioni di sangue, anche a rischio di vita.

In presenza di una paziente in condizioni critiche, il chirurgo si è trovato di fronte a una decisione di notevole gravità: procedere con l’intervento chirurgico e ricorrere alla trasfusione di sangue. L’intervento si è concluso con successo, consentendo alla paziente di superare la fase acuta e di essere attualmente fuori pericolo.

Tuttavia, la situazione assume una dimensione giuridica complessa.  Sebbene l’intervento sia stato un successo dal punto di vista medico, il sanitario potrebbe essere soggetto a procedimento penale per il reato di violenza privata, in quanto la paziente non aveva espresso il consenso al trattamento.

Questa vicenda evidenzia la complessità della situazione, in cui diritto, etica, fede e medicina si intersecano in modo delicato.  Si pone la questione di quale sia il dovere del medico quando rispettare la volontà del paziente comporta il rischio di morte.  Inoltre, si interroga sull’estensione della validità di una scelta religiosa in relazione all’obbligo professionale di salvare vite umane.

Tali questioni potrebbero essere sottoposte a valutazione giudiziaria.  Indipendentemente dall’esito del procedimento, la vicenda continuerà a suscitare dibattito e a dividere l’opinione pubblica.



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