C’è vita dopo la morte? Sì, lo dimostrano più di 1.000 geni



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Tutti quanti prima o poi ci confrontiamo con la perdita di qualcuno a cui eravamo legati e in quel momento in noi, che ancora non siamo pronti a lasciarlo andare, scatta la fatidica domanda “c’è vita dopo la morte?”. Sì. Questa è la risposta a cui sono arrivati alcuni ricercatori della Alabama State University e della University of Washington che su BiorXiv hanno pubblicato lo studio intitolato “Accurate Predictions of Postmortem Interval Using Linear Regression Analyses of Gene Meter Expression Data” attraverso il quale ci spiegano come siano giunti alla loro conclusione.



Nobles e i suoi colleghi hanno cercato di identificare il momento esatto in cui sopraggiunge la morte di un essere vivente analizzandone l’espressione di centinaia di geni upregolati (aumento di una componente cellulare), nello specifico i soggetti presi in analisi sono stati alcuni esemplari di pesce zebra e di topi. Dai dati raccolti, i ricercatori sono riusciti ad identificare 1.063 geni che si riattivavano o attivavano in seguito alla morte degli animali, stiamo parlando di un arco temporale che varia da 24 ore fino quattro giorni dopo il decesso, come nel caso del pesce zebra.

I geni che “prendevano vita” erano quelli coinvolti in alcuni compiti specifici per il corpo, come stimolare l’infiammazione, attivare il sistema immunitario o contrastare lo stress. Ma non solo. Ciò che ha lasciato a bocca aperta i ricercatori è stata l’attivazione di alcuni geni fondamentali per lo sviluppo e la formazione dell’embrione che, durante il corso della vita, restano latenti. Altri geni coinvolti sono stati quelli considerati “promotori” dello sviluppo del cancro. Proprio quest’ultimo aspetto potrebbe spiegare come mai le persone che ricevono il trapianto da una persona appena deceduta siano più a rischio tumori.

A cosa serve questo studio? Quanto scoperto permetterà a livello forense di identificare meglio l’esatto momento della morte e a livello scientifico di migliorare le procedure per i trapianti di organi. E, come dice lo stesso autore Noble, “questo studio dimostra che è possibile avere più informazioni sulla vita studiando la morte”.



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