Napoli shock: Massacrato da una baby gang perde la milza



È stato spinto, insultato, poi preso a botte. Un attimo di follia e rabbia, tutto accade velocemente nel giro di pochi secondi, è stato picchiato a sangue, preso a calci e pugni. Tutto questa violenza senza un perché. Gaetano e Arturo, sono state vittime di una baby gang di coetanei, purtroppo per uno di loro è toccata la sala rianimazione.



È stato strattonato, mi­nacciato, poi picchiato. In un vorti­ce di follia e violenza, nel giro di po­chi interminabili secondi, è stato preso a calci, a pugni, ancora a cal­ci. Senza un perché, senza la mini­ma motivazione. Gaetano come Ar­turo, vittima di un branco di coeta­nei, è adesso in rianimazione. All’ospedale di Giugliano, dove è ar­rivato nel tardo pomeriggio, porta­to d’urgenza dopo che, tornato a ca­sa, aveva tentato di resistere ai dolori, ha subito un lungo e delicato in­tervento. I medici gli hanno dovuto asportare la milza.

Gaetano ha appena quindici an­ni, vive aMelito. Ieri pomeriggio, al­le 18.30, è uscito dalla metropolita­na alla stazione di Chiaiano. Era con due cugini, Simone e Alessio, suoi coetanei e compagni di studi all’istituto Minzoni di Giugliano: dovevano raggiungere Qualiano per trovarsi con alcuni amici. Una volta fuori dalla stazione i tre si sta­vano recando verso la fermata dell’autobus. All’improvviso, tra la folla, spuntano dei ragazzini. Uno diloro strattona Gaetano. Lo minac­cia. Dalle parole è passato immedia­tamente ai fatti: nemmeno il tempo di capire cosa stia accadendo che Gaetano viene picchiato. Glialtrira- gazzi del branco – una quindicina, tutti giovanissimi – aggre­discono Simone e Alessio che però riescono a scap­pare e a rifugiarsi in un bar della zona. Gaetano è so­lo. È a terra e non riesce a reagire contro la furia del branco: viene preso acalci e pugni. Pochi e intermina­bili momenti di terrore.

Poi riesce ad alzarsi e a scappare dalla furia della gang. Si rifugi a nella stazio­ne della metropolitana e    chiede aiuto, ma nessuno si preoccupa di lui.

«Abbiamo chiesto aiuto, ma nessuno ha fatto nulla. Ci hanno detto di chiamare i carabinieri e la polizia e l’abbiamo fatto – racconta Simo­ne, ancora sconvolto, nella sala d’at­tesa del pronto soccorso del San Giuliano. «Lo hanno picchiato sen­za motivo e noi non siamo riusciti a fare nulla, erano una quindicina di ragazzi, nel bar ci hanno detto che stanno sempre li in zona». Gaeta­no, dopo l’aggressione, è tornato a casa con i cugini. Un loro amico li ha soccorsi e portati a Melito. «Gae­tano aveva dei forti dolori all’addo­me, al volto e a varie parti del corpo – spiega Alessio – allora la madre lo ha portato in ospedale. E qui gli han­no fatto la diagnosi e poi l’hanno operato».

Gli stessi sanitari han­no poi allertato le forze dell’ordine. Al nosocomio sono così giunti gli agenti del Commissariato di poli­zia di Giugliano, diretti dal primo dirigente Pietro Paolo Auriemma, che han­no avviato le indagini. I po­liziotti hanno interrogato i due giovani cugini testi­moni del dramma e poi, in collaborazione coi colle­ghi di Chiaiano, hanno vi­sionato le immagini delle telecamere di videosorveglianza della stazio­ne, nel tentativo di identificare gli aggressori. «So solo che a mio nipo­te hanno asportato la milza e che è in Rianimazione», si sfoga la zia di Gaetano. Stella, la mamma del ra­gazzino, con il papà restano immo­bili davanti alla porta della Rianima­zione, senza riuscire a parlare. Una famiglia tranquilla, pulita: lei è casa- linfa, il marito impiegato. Gaetano è il loro unico figlio. «Erano usciti per andare da alcuni amici e ora mi ritrovo con mio nipote che lotta tra la vita e la morte. È pazzesco, questi ragazzi vanno fermati, sono dei paz­zi, dei criminali. Gaetano non ha fatto niente, è un bravo ragazzo, stu­dioso, rispettoso. Quelli la devono pagare».

La violenza è nella società, prima che nelle gang

«Ci siamo interessati a questa problematica come università affrontando una ricerca che si focalizzava su un gruppo particolare di ragazzi, le cosiddette “baby gang”, cioè le aggregazioni dei giovani latino-americani immigrati in Italia. La situazione di partenza era fortemente legata all’immagine di criminalizzazione dei media rispetto a questo fenomeno. Qualunque fatto in qualche modo riconducibile a dei giovani latino-americani veniva automaticamente definito come frutto di baby gang con descrizioni basate su immagini fortemente stereotipate.
Era sufficiente essere un adolescente latino-americano con un certo stile o abbigliamento per essere etichettato come appartenente a una banda» ci dice Francesca Lagomarsino, Ricercatrice al Dipartimento Scienze Antropologiche Università di Genova.
Il termine gang, baby gang, nell’immaginario collettivo rimanda a una visione fortemente negativa, a film statunitensi, a un contesto diverso dal nostro, in cui anche il grado di violenza, si suppone sia molto elevato.

Possiamo tentare di definire il termine “baby gang”?

«Questi gruppi, che sono fondamentalmente i Nietas e i Latin King, sono sparsi sul territorio. Ce ne sono soprattutto a Genova, Milano e Perugia, con delle specificità. L’accento che veniva maggiormente sottolineato, in questa visione stereotipata da parte dell’informazione era il fine degli atti delittivi, come se queste fossero le finalità del loro stare insieme.
In realtà, abbiamo visto come questi atti fossero assolutamente marginali e non legati al fatto di far parte del gruppo. Questo ovviamente cambia completamente l’immagine sociale, e soprattutto la percezione di paura e di timore. L’idea iniziale era di decostruire lo stereotipo, e poi dargli voce. Tutte le descrizioni, infatti, erano sempre fatte tramite la polizia, come fonte principale, oppure educatori, insegnanti. Noi invece pensavamo che questi ragazzi avessero sicuramente qualcosa da dire».

Quindi dargli voce disinnesca l’allarmismo?

«È uscita fuori in modo molto chiaro l’idea che sembrava fossero chissà quali criminali, quando di criminale non c’era proprio niente. Il problema è che i media non sono stati molto recettivi su questo: ragionano per categorie interpretative. Dal punto di vista, invece, di un micro-lavoro quotidiano, non solo nel quartiere, nelle associazioni, credo sia servito molto. Soprattutto perché i ragazzi si sono presentati come degli interlocutori credibili. Sono state realizzate, ad esempio, attività di prevenzione sull’abuso delle sostanze, sulla sessualità, e loro erano gli interlocutori privilegiati che andavano a parlare con gli educatori, con l’assessore per i finanziamenti, e che facevano da tramite con i loro pari».

Quali le problematiche legate alle dinamiche aggregative dei ragazzi?

«Tendenzialmente il bisogno primario, indipendentemente dalla classe sociale e dalla provenienza etnica. È sicuramente quello di aggregarsi in gruppi di pari. Si condividono le cose, che sia la passione sportiva, piuttosto che un interesse, e questo è trasversale a tutte le classi sociali.
Per cui una cosa che mi ha colpito è che alla fine le dinamiche di questi ragazzi non erano molto diverse da quelle dei coetanei. Su questo si innestano invece delle dinamiche più strutturali legate alle condizioni di vita, come la questione dei documenti, la precarietà del soggiorno, la disputa del lavoro che però è assolutamente condivisibile anche con ragazzi italiani. Per il problema della violenza è emerso abbastanza chiaramente che esso riguarda, e in forte misura, tutta la società, solo che si manifesta in modo diverso. Il problema è come questa viene percepita. La violenza di questi ragazzi è identificata come qualcosa di intrinseco, per età, classe sociale bassa, o perché sono stranieri, come se fossero ideologicamente violenti, pericolosi e niente fosse imputabile al contesto sociale in cui vivono.
Il dubbio-timore che adolescenti e giovani adulti, siano soggetti un po’ sul confine è sempre in agguato, e lo è ancor più per alcuni, in particolare se sono stranieri. L’unione di problematiche tende a costruire un’immagine negativa. Poi la “violenza” del politico che ruba dei miliardi passa quasi come normalità. La violenza del ragazzino che spacca una bottiglia in testa a un altro invece come qualcosa di inaccettabile, inconcepibile, animale».

Si può parlare di baby gang in Italia, alla luce di tutto questo?

«Con l’immaginario da film americano che possiamo avere noi: il contesto è assolutamente diverso. È vero, che, soprattutto per gli stranieri, ma non solo, c’è un grosso problema a livello di investimenti in attività sociali, rivolte ai giovani, che non siano a pagamento. Perché in realtà ce ne sono, ma spesso si rivolgono ad un target molto specifico e bisognoso di un particolare intervento sociale. E tutte le attività ricreative finiscono per essere o a pagamento, o legate al consumo, e questo è un grosso limite».

PREMESSA Nella realtà italiana il disagio socio-relazionale, in età evolutiva, sta assumendo una rilevanza qualitativamente e quantitativamente significativa, manifestandosi sia a scuola che al di fuori del contesto scolastico. Di fronte a queste problematiche sempre più complesse, la scuola, in questi ultimi anni, sta rivalutando il suo ruolo educativo e formativo della persona nel suo complesso, cercando di dotare ogni alunno non solo di strumenti culturali ma anche di un bagaglio di competenze relazionali. Tali competenze sono più che mai necessarie in quanto i giovani di oggi dovranno domani non solo saper svolgere un lavoro, ma sapersi inserire in un gruppo ed adattarsi a situazioni sempre nuove, sapendo vivere e relazionarsi in modo positivo in una futura realtà lavorativa e più in generale nella società (4). QUALCHE DATO Dall’ottavo “Rapporto nazionale sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza” si evince che su un campione rappresentativo di 1680 bambini e 1950 adolescenti di 52 scuole italiane di ogni ordine e grado, il 25,2% degli alunni dichiara di subire brutti scherzi dai coetanei; il 27,5% afferma di subire provocazioni e prese in giro reiterate nel tempo, mentre il 23,2% viene offeso ripetutamente e senza motivo. Si presentano, inoltre, situazioni di maggiore gravità: l’11,5% dei ragazzi dichiara, ad esempio, di essere stato minacciato da coetanei o ragazzi più grandi, il 10,9% di aver subito furti dai compagni, mentre il 7,5% sostiene di essere stato vittima di percosse ad opera di coetanei (3). Il fenomeno, secondo il Rapporto, interessa più i maschi delle femmine, nonostante il bullismo al femminile si stia diffondendo sempre di più. Uno studio condotto nel 2002 dalla Regione Lombardia ha rilevato che, su un campione di 10.513 studenti (5426 maschi e 5087 femmine), dei quali 4.406 delle scuole elementari e 6.107 delle medie, il 64% degli alunni delle scuole elementari e il 50% di quelli delle scuole medie hanno avuto a che fare, come vittime o come aggressori, con il fenomeno del bullismo”. Secondo i ricercatori lombardi i “bulli hanno maggiori probabilità di una carriera deviante che li porterà in molti casi ad avere problemi con le droghe e la giustizia prima dei 24 anni” (Quotidiano on line di informazione, documentazione e ricerca socio-sanitaria, 2 ottobre 2007).

IL BULLISMO TRA DIFFICOLTÀ DEL SINGOLO E RINFORZO SOCIALE Il bullismo non è un fenomeno riconducibile alla sola condotta dei singoli, ma riguarda l’insieme dei pari. È facilitato in contesti ove esista una tacita accettazione o sottovalutazione del fenomeno. Nel bullismo si identificano diversi ruoli significativi. Oltre alla vittima e al bullo ci sono i sostenitori del bullo, coloro che difendono la vittima e gli spettatori che sembrano distanziarsi dal gioco perverso che si esplicita sotto i loro occhi. Le dinamiche relazionali distorte rafforzano i comportamenti disfunzionali dei diversi attori. Il bullo subisce una pressione dal gruppo: deve proteggere l’immagine da duro che si è costruita. La vittima umiliata, spaventata e insicura si vergogna di chiedere aiuto, finché la sofferenza e l’isolamento possono esitare in azioni distruttive. Alla base dei comportamenti aggressivi si riscontra soprattutto l’atteggiamento anaffettivo (mancanza di calore) delle persone che precocemente si sono prese cura del bambino, rinforzato da comportamenti che possono essere indifferentemente troppo permissivi o punitivi. Al contrario non si è dimostrata significativa l’appartenenza ad una particolare classe sociale. La recente ricerca connessa alla prevenzione dei rischi inerenti lo sviluppo dei comportamenti anti-sociali tra i giovani, ha identificato nel continuum caratterizzato dai due poli aggressività- prosocialità, la modalità attraverso cui si esprime il comportamento sociale di un individuo. L’azione educativa della scuola, nel promuovere comportamenti antitetici al bullismo, ovvero prosociali, favorisce non solo il successo scolastico ma promuove anche lo sviluppo dell’autostima, della socialità. Per favorire ciò gli insegnanti devono mirare a rafforzare alcune abilità individuali e interpersonali, quali la capacità di riconoscere le proprie emozioni, l’empatia, il problem solving e l’autoefficacia personale. Sono dunque chiamati a ricoprire il ruolo di facilitatori delle dinamiche relazionali di gruppo, integrando la funzione formativa ed educativa ad attività che incoraggino atteggiamenti collaborativi e cooperativi, al fine di creare un clima che favorisca l’apprendimento ed il benessere psicofisico degli alunni. Per fronteggiare il fenomeno non va comunque persa di vista la funzione rieducativa, e non punitiva, dell’istituzione scolastica, sottolineata anche al livello ministeriale attraverso le linee di indirizzo generali per la prevenzione e la lotta al bullismo del 2007.

Il fenomeno delle baby gang nelle narrazioni mediatiche
Nel corso del 2003 e 2004, scrive Palmas, una martellante campagna giornalistica, ad opera soprattutto del principale giornale cittadino genovese (“Il Secolo XIX”), che racconta di una spartizione e di un controllo quartiere per quartiere ad opera di numerose bande di giovani latinoamericani e in particolare ecuadoriani, ha portato, nel volgere di due anni, l’immagine dei latinoamericani a Genova a subire una drastica trasformazione: da donne invisibili, docili, culturalmente a noi prossime, per vocazione dedite a lavori domestici o assistenziali, a maschi ubriachi e molesti che occupano spazi pubblici inutilizzati dai cittadini, a giovani criminali in erba, il cui abbigliamento diventa rivelatore e indice di pericolosità (Palmas e Torre, 2005). Le immagini oggi preponderanti, continua l’autore, producono effetti di realtà significativi in termini di discriminazione etnica, dato che essere giovane e latinoamericano può rappresentare un marchio, uno stigma, un indice di rischio sociale attraverso cui si è socialmente percepiti.

Sempre a proposito dell’influenza mediatica sul tema in analisi, nel Dodicesimo Rapporto sulle migrazioni di Fondazione ISMU del 2006, Di Nicola presenta uno studio sul tema delle baby gang straniere condotto a Transcrime (Centro interuniversitario di ricerca sulla criminalità transnazionale dell’Università di Trento e dell’Università Cattolica di Milano) (Di Nicola, 2007). Questo studio si è basato sull’analisi dei contenuti di notizie giornalistiche pubblicate online in ambito locale e nazionale nel corso del 2006. L’autore afferma infatti che è complicato studiare questo fenomeno sull’intero territorio nazionale, sia perché relativamente nuovo sia perché le fonti statistiche ufficiali non permettono di capire se un reato è stato commesso da una banda, né di ottenere informazioni sulle sue caratteristiche e su quelle dei suoi componenti. Inoltre, continua l’autore, il fenomeno delle gang straniere esiste ma è in parte costruito dai giornali e avvalersi delle notizie di stampa permette quindi anche di percepire la portata di questa costruzione mediatica. Anche da questo studio emerge come nel corso del 2006 i mass media hanno gridato all’emergenza bande giovanili straniere non solo a Genova, ma anche ad esempio a Milano e Firenze.

Mastropasqua sostiene che l’interesse mediatico per questo fenomeno trova conferma, ad esempio, nello speciale 2011 del gruppo L’Espresso-Repubblica, che titolava:
Le gang del Barrio Italia. Si chiamano Latin Kings, Los Diamantes, Mara Salvatrucha, inquadrano teenager ecuadoriani, colombiani, peruviani, argentini, sono dedite alle rapine, alle risse per il controllo del territorio, anche se non sono mancati gli omicidi. Quello delle bande latino-americane è un fenomeno nuovo che, soprattutto a Genova e Milano, ma un po’ ovunque nei centri storici e nelle periferie delle invecchiate città italiane sta seminando la paura. Latin Kings, Netas, Commando Allarme nelle prefetture del Nord. Le grandi città settentrionali, ma anche Roma e Napoli, stanno conoscendo la “conquista” di quartieri interi da parte di ecuadoriani, peruviani, portoricani e dominicani. Si riuniscono in bande e sono particolarmente violenti. Solo a Genova l’ultimo censimento dice che gli ecuadoriani in città sono quasi ventimila. A Milano le gang contano almeno duemila affiliati”.

Riflettendo sugli effetti della narrazione mediatica, Palmas sostiene che l’effetto alone che essa produce colpisce decine di migliaia di persone nelle loro vite (contando, Genova, una fra le più grandi comunità latinoamericane, specialmente ecuadoriane, in Italia), nelle loro relazioni sociali e nelle loro opportunità lavorative; preclude la comprensione delle tensioni reali così come delle risorse e delle differenze circolanti all’interno dei mondi giovanili e quindi rende doppiamente miopi le politiche di intervento sociale, costrette a navigare fra emergenza e notizie scandalo senza afferrare né la complessità dei problemi né le leve possibili di un’azione trasformatrice; infine tale narrazione rischia di divenire profezia che si auto- adempie, prefigurando per giovani e adolescenti inferiorizzati nei loro spazi di vita quotidiana un percorso perverso di visibilità, affermazione e riconoscimento.
Si riportano a tale proposito alcune parole di Palmas:

Ovviamente devianza e criminalità, a prescindere dai soggetti responsabili, sono fenomeni con dimensioni specifiche di realtà, a volte strutturati da network e organizzazioni illegali il cui operato non è riducibile o spiegabile solo come effetto di un pregiudizio o un’esclusione sociale; eppure nel caso genovese, la distanza di realtà fra pratiche situate di devianza giovanile e generazione ad opera dei media di un discorso pubblico stigmatizzante ci sembra abissale e dunque tanto più inscrivibile dentro una logica di circolarità orizzontale fra attori che si giustificano ed alimentano a vicenda le proprie ragioni. La rappresentazione sociale che così si istituisce agisce sui seguenti terreni:
a) la condizione di sudamericano, e in particolare di giovane ecuadoriano, diviene predittrice di comportamenti devianti;
b) la socialità fra i gruppi di latinoamericani viene riletta come un fenomeno associato alle bande e quindi ad attività devianti e potenzialmente pericolose per i cittadini. Tratti somatici, linguistici e di abbigliamento divengono a loro volta predittori di devianza e generatori di allarme sociale negli spazi pubblici;
c) si incrina la discriminazione positiva di cui godevano le donne latino-americane (ed ecuadoriane) nel lavoro domestico e nei servizi di cura;
d) le pratiche legate al fenomeno delle bande – piccole rapine, furti, risse, atti di vandalismo o di violenza gratuita – diventano per i membri delle stesse atti comunicativi attraverso cui affermare un potere simbolico nello spazio pubblico e nei mondi giovanili dei latinoamericani;
e) muta l’operare delle istituzioni e in particolare il lavoro di polizia nella sua quotidianità fatta di controlli, fermi, concessione di permessi, attraverso la generazione di nuovi soggetti bersaglio come forma di risposta alle campagne stampa in atto e come forma di allentamento dell’allarme sociale…
Tale rappresentazione mediatica, nelle sue forme e nei suoi effetti, costituisce il contesto principale, il frame, attraverso cui sono percepiti giovani e adolescenti latinoamericani; un fenomeno circoscritto e differenziato al suo interno, come quello delle pandillas generate nel seno dell’immigrazione latinoamericana, diviene così l’alfabeto attraverso cui decifrare, pensare, classificare migliaia di giovani grazie al continuo e pervasivo incorniciamento di pratiche ed eventi differenziati all’interno di un contenitore ricorrente, ed ormai auto-alimentato, che contribuisce ad associare un determinata nazionalità (o una provenienza geografica) a situazioni di reato, di devianza, di pericolosità sociale”
(Palmas e Torre, 2005).

Più in generale, interessanti sono anche alcuni studi condotti sui media televisivi che mettono in evidenza una sovra-rappresentazione del genere narrativo “criminalità comune e migrazioni” (Marchese, Milazzo, 2002). Un’indagine sull’informazione televisiva del 2002 sottolinea come “il difetto di comunicazione sugli immigrati si inscrive in un quadro più complessivo di inadeguata rappresentazione dei diversi soggetti sociali” e individua alcune dimensioni fondative di tale modo di fare televisione: la drammatizzazione, l’uso di un linguaggio emotivo, la superficialità nella verifica delle fonti, la carenza di funzione critica, il circolo vizioso con i supposti umori delle masse, la rappresentazione parziale (Censis, 2002). Questa distorsione si amplifica nel caso dell’immagine veicolata sui migranti: in generale l’immagine che si desume da quanto visto in televisione oscilla necessariamente dal povero immigrato, vittima di una gamma di possibili fatti negativi come atti criminosi, discriminazione, errori giudiziari, ritardi o malfunzionamenti burocratici, allo straniero violento e criminale. Sembra configurarsi come icona strumentale, si direbbe funzione narrativa, alla stessa stregua dell’immagine femminile o di quella del bambino, caratteri che fungono da stabili espedienti narrativi per condire e drammatizzare le notizie (ibidem).
Da un approfondimento sul tema a partire da una ricerca comparativa sui media (stampa e televisione) a cura dell’agenzia europea EUMC (European Monitoring Centre on Racism and Xenophobia), si legge, tra le altre cose, che è carente un approccio al tema in termini di contesti e background delle migrazioni mentre il lato emergenziale è messo costantemente in primo piano; spesso le fonti usate dai media sono a senso unico, ovvero si basano sulle dichiarazioni rilasciate o fatte filtrate dalle autorità di polizia; migranti e minoranze etniche godono di un diritto di parola molto limitato nei media dato che normalmente sono altri i soggetti incaricati di raccontarli e giudicarli; spesso la forma del racconto si basa su un modello in cui “loro sono il problema” e “noi siamo le vittime” e infine che le immagini in negativo dei migranti non sono compensate da immagini in positivo (EUMC, 2002).
Palmas sostiene che l’insieme degli effetti innescati dai media – in modo consapevole o inconsapevole, per finalità mercantili, per volontà politica o per indifferenza alle conseguenze delle procedure di definizione dei fenomeni – si definiscono cumulativamente nei termini di una progressiva stigmatizzazione, discriminazione etnica e violenza simbolica…e che i media, più che rispecchiare la realtà, contribuiscono a crearla, attraverso un potere di definizione e classificazione che produce conseguenze reali, in termini di opportunità sociali e lavorative, capitale sociale, simbolico e relazionale a disposizione dei soggetti (Palmas e Torre, 2005).

Verso una “decostruzione del fantasma delle bande”
La ricerca realizzata dal Centro Studi Medì nel 2004 sulla condizione degli adolescenti e dei giovani latinoamericani residenti nel contesto genovese nasce anche dall’intenzione di decostruire questo “fantasma delle bande”, procedendo in un percorso di approfondimento e conoscenza basato su una discesa sul campo, con l’obiettivo di confrontare le immagini veicolate dai media e la conoscenza pubblica che circola con le percezioni, i vissuti, le pratiche e gli spazi quotidiani attraversati dai giovani di origine latinoamericana (Palmas e Torre, 2005).
Nella prefazione al testo di Palmas e Torre del 2005, Ambrosini sostiene che si tratta di uno dei primissimi lavori dedicati nel nostro paese non solo alle seconde generazioni, ma più specificatamente agli adolescenti e giovani figli di immigrati, per lo più arrivati per ricongiungimento famigliare dopo aver trascorso l’infanzia nel paese d’origine e più in particolare su quel segmento di popolazione giovanile immigrata che nel 2005 ha campeggiato appunto nelle cronache dei giornali genovesi ed è stato etichettato come portatore di disordine e pericolosità sociale.
La questione cruciale che le seconde generazioni pongono, scrive l’autore, è quella del passaggio da immigrazioni temporanee a insediamenti durevoli e in molti casi definitivi, con la trasformazione delle immigrazioni per lavoro in immigrazioni di popolamento. La crescita e la socializzazione dei figli dei migranti, continua Ambrosini, anche indipendentemente dalla volontà dei soggetti coinvolti, producono uno sviluppo delle interazioni, degli scambi, a volte dei conflitti tra popolazioni immigrate e società ospitante: rappresentano un punto di svolta dei rapporti interetnici, obbligando a prendere coscienza di una trasformazione irreversibile nella geografia umana e sociale dei paesi in cui avvengono. Tra problemi reali e paure crescenti, la questione delle seconde generazioni diventa la cartina di tornasole degli esiti dell’inclusione di popolazioni alloctone. Essere giovani, di condizione popolare e di origine straniera sono tre caratteristiche tendenzialmente inquietanti, che alimentano dubbi e interrogativi circa l’adesione all’ordine costituito e la disponibilità a riprodurlo.
Fatta questa premessa, prima di affrontare le questioni legate alle problematiche dei giovani latinos, come sottolinea Torre, è utile ampliare lo scenario rispetto al tema dell’ immigrazione straniera in Italia (ibidem). Per l’Italia, l’esperienza dell’immigrazione straniera è un fenomeno relativamente recente, anche perché fino ai primi anni ’70 l’Italia è stato un paese di forte emigrazione. Il primo anno in cui l’Italia ha avuto un saldo migratorio positivo (più immigrati che emigranti) è il 1973, l’anno in cui i paesi europei di tradizionale accoglienza (Francia, Germania, Belgio) hanno iniziato a limitare gli ingressi di lavoratori stranieri.
Rispetto più in particolare alla presenza degli immigrati sudamericani nel contesto genovese, l’arrivo di migranti sudamericani a Genova risale ai primi anni ’90; questa immigrazione si è da subito caratterizzata per la forte presenza femminile: dall’America Latina, infatti, emigrano anzitutto le donne, spesso testa di ponte delle catene migratorie: Ecuador (le donne sono il 65%), Perù (67%), Repubblica Dominicana (81%), Brasile (75%), Cuba (79%) e Colombia (73%) (Torre, 2005). Dopo un’iniziale preminenza di cittadini peruviani, la presenza sudamericana a Genova si è via via caratterizzata per l’arrivo di donne migranti dall’Ecuador; nel 1999 la nazionalità ecuadoriana è diventata, per la prima volta, la maggiore componente a Genova e da allora la crescita è stata continua. Questo dato si riverbera, con ancora maggiore evidenza nell’ambito dei minori stranieri, con una crescita dei minori latinos più recente, grazie ad una forte accelerazione conseguente alla Regolarizzazione collegata con la legge Bossi-Fini (20022003) (Palmas e Torre, 2005).
AlFinterno di questo contesto, si evidenziano due transizioni essenziali, descritte da Ambro- sini nella prefazione.



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