Tumore della prostata: disponibile anche in Italia una nuova chirurgia laser



A Riccione, al Congresso della Società Italiana di Urologia, sono state illustrate le principali caratteristiche della “chirurgia focale“: una sorveglianza quattro volte più attiva nei tumori della prostata allo stadio iniziale e con parametri pronostici favorevoli; una terapia fotodinamica, innovativa e mininvasiva, che tramite un laser non termico e a bassa potenza, brucia fino a necrotizzare, le cellule tumorali senza danni per i tessuti sani circostanti.

Oltre all’asportazione immediata del tumore, la metodica è in grado di ridurre in modo significativo il successivo sviluppo di tumori di grado superiore (attestato dalla biopsia), permettendo a molti pazienti di poter passare a un trattamento curativo (terapia chirurgica radicale o radioterapia) in percentuali più che dimezzate rispetto alla sorveglianza attiva, sia nel breve sia nel lungo termine (a 2 anni con probabilità del 7% vs 32% della sorveglianza attiva, a 3 anni del 15% vs 44 e, infine, a 4 anni del 24% vs 53%). I risultati sono emersi da un trial clinico – PCM301 – che dimostra, inoltre, la capacità della terapia fotodinamica di garantire una superiorità nella rimozione parziale dei tumori prostatici iniziali, sia in termini di sicurezza, sia di tempo successivo libero da malattia o di progressione del tumore stesso. Con ricadute importanti sul miglioramento della qualità di vita, anche in pazienti a rischio o con malattia in progressione, favorito dai valori aggiunti della chirurgia focale: la riduzione dei tempi di intervento che (solo 1 ora e mezza); l’esecuzione della procedura in regime ambulatoriale con minor impatto psico-emotivo per il paziente; l’abbattimento degli effetti collaterali con diminuzione/assenza di dolore post operatorio, rapido recupero della funzionalità prostatica e sessuale (fortemente compromesse invece con un intervento di chirurgia radicale).

L’utilizzo del laser fotodinamico, indicato in casi selezionati di tumori iniziali della prostata, è stato approvato in oltre 31 paesi dell’Unione Europea (UE) oltre che in Israele. Sono in partenza, anche in Italia, i primi trattamenti con chirurgia focale presso alcuni centri selezionati di alta specialità, mentre si stanno arruolando pazienti a rischio intermedio per uno studio fase II.

La chirurgia focale – spiega Giuseppe Morgia, responsabile scientifico della Siu e direttore del Dipartimento di Urologia del Policlinico di Catania – è la prima terapia fotodinamica conservativa e mininvasiva che impiega un laser non termico a bassa potenza in grado di necrotizzare (ovvero di uccidere) le cellule tumorali, preservando il tessuto sano circostante, tramite un processo di fotoattivazione. Grazie alla capacità del laser di attuare in tempi rapidissimi una occlusione vascolare è possibile asportare tumori di piccole dimensioni entro il raggio d’azione di 5mm dalle fibre ottiche stesse. La metodica è dunque ‘selettiva’, idonea in pazienti con malattia allo stadio iniziale, candidati a una chirurgia conservativa, che non richiede cioè l’asportazione dell’intera ghiandola prostatica (chirurgia radicale) e rispondenti ad altri parametri prognostici favorevoli“.
Il farmaco utilizzato – spiega Vincenzo Mirone, responsabile della comunicazione Siu e ordinario di urologia all’Università Federico II di Napoli – viene attivato solo nella parte della prostata illuminata dal Laser e questo permette di risparmiare completamente la funzionalità minzionale ed erettile. È un nuovo modo di approcciarsi al tumore della prostata. Tuttavia, la scelta del paziente è fondamentale, il tumore non deve essere presente in entrambi i lobi e non deve essere aggressivo“. “Questa tecnica – precisa Walter Artibani, segretario generale della Siu e direttore della cattedra di Urologia all’Università di Verona – offre al paziente sensibili vantaggi, quali la durata limitata dell’intervento che richiede all’incirca 1 ore e mezza in regime ambulatoriale, la diminuzione fino all’assenza quasi totale di effetti collaterali, il rapido recupero post-operatorio e della funzionalità prostatica e sessuale, l’efficacia del trattamento scientificamente dimostrata“.
Su questa tecnica – precisa Morgia – abbiamo avviato uno studio clinico, il trial PCM301, in cui un follow-up a 4 anni, in pazienti trattati con la chirurgia focale, evidenzia un miglioramento mai registrato da altre metodiche di intervento, in termini di durata, sicurezza e efficacia dell’ablazione parziale per il tumore prostatico allo stadio iniziale“.

La prima sperimentazione multicentrica, prospettica, randomizzata ha dimostrato che la terapia fotodinamica vascolare mirata è capace di ridurre in modo significativo il successivo sviluppo di tumori di grado superiore (attestato dalla biopsia), permettendo così a molti pazienti di poter attuare una terapia radicale, specificamente chirurgia, o un trattamento radioterapico. Rispetto alla sorveglianza attiva, questa procedura consente di ‘controllare’ meglio la progressione di malattia favorendo il passaggio a un trattamento curativo, anche a lungo termine.

Fattori di rischio

 Le cause reali del carcinoma prostatico rimangono ancora sconosciute. È possibile però individuare alcuni potenziali fattori di rischio che aumentano la probabilità di ammalarsi, anche se non sono direttamente responsabili dell’insorgenza della patologia. L’emergere di forme clinicamente silenti e non aggressive ha complicato l’interpretazione della diversa distribuzione dei fattori di rischio della neoplasia. È provato però come alcuni fattori dietetici e comportamentali, oltre all’età, possano essere associati alla malattia: – alimentazione, una dieta ricca di grassi, soprattutto saturi come fritti e insaccati e l’eccessivo consumo di carne rossa e latticini (quindi anche di calcio), aumenterebbero l’incidenza. La dieta vegetariana sembra invece svolgere un’azione protettiva. Andrebbero privilegiati in particolare gli ortaggi gialli e verdi, l’olio d’oliva e la frutta. Consigliabile il consumo di vitamine A, D, E e del selenio. – sedentarietà; – sostanze chimiche, come cadmio, alcuni fertilizzanti e coloranti; – alti livelli di androgeni nel sangue; – fattori ereditari, anche se in una minoranza dei casi (<15%). Gli uomini con un parente stretto (padre, zio o fratello) con questo tumore presentano infatti un maggiore rischio di ammalarsi (soprattutto se la neoplasia è stata diagnosticata a più di un familiare, anche prima di 65 anni). È bene quindi che effettuino controlli a partire dai 40-45 anni; – etnia afro-americana, la malattia è infatti più diffusa tra i maschi di razza nera rispetto a quelli di razza caucasica. >Sono inoltre in costante aumento gli studi che stabiliscono una correlazione tra la malattia e l’infiammazione, cronica o ricorrente, della prostata. La causa scatenante di questa reazione infiammatoria, da cui potrebbe derivare il danno che favorisce lo sviluppo di cellule tumorali, non è ancora chiara: si pensa però che virus, batteri e sostanze tossiche introdotte dall’esterno possano svolgere un ruolo determinante. In linea generale, quindi, vanno considerate le stesse regole di prevenzione primaria valide per altri tipi di patologie, sia tumorali che non, che includono: – pratica di attività fisica; – corretta alimentazione; – niente fumo; – consumo moderato di alcol. In caso si pensi di rientrare nelle categorie indicate come a rischio e in presenza di anomalie, è bene sottoporsi ad un controllo urologico.



“Avere coscienza dei sintomi – aggiunge Walter Artibani, segretario generale SIU e direttore del Dipartimento Urologia dell’Azienda ospedaliera universitaria di Verona – è il fattore chiave per la diagnosi precoce“.

I Numeri

Il tumore della prostata rappresenta circa il 20% di tutte le neoplasie diagnosticate tra gli uomini a partire dai 50 anni di età. L’incidenza del carcinoma ha mostrato negli ultimi anni una costante tendenza all’aumento, in particolar modo intorno al 2000, con la maggiore diffusione del test del PSA. Si attende quindi un moderato e costante incremento anche per i prossimi decenni: se per il 2012 si sono stimati circa 36.000 nuovi casi, nel 2020 saranno 44.000 e circa 52.000 nel 2030. La sopravvivenza dei pazienti con carcinoma alla prostata, non considerando la mortalità per altre cause, è attualmente dell’88% a 5 anni dalla diagnosi, in costante e sensibile crescita. Per i pazienti in vita dopo 1, 3 e 5 anni, l’aspettativa migliora ulteriormente. Il principale fattore correlato a questa tendenza temporale è dato dall’anticipazione diagnostica e dalla progressiva diffusione dello screening “spontaneo”, che comporta evidentemente una quota di sovradiagnosi.

Prevenzione

Se gli studi clinici dimostrano senza ombra di dubbio l’importanza di esami “preventivi” contro alcuni tumori, come quello della mammella o del colon, per le neoplasie della prostata prevalgono dati discordanti. In particolare esistono due scuole di pensiero basate sui risultati dei due studi di screening con PSA: la prima (americana) incentiva la prescrizione di esami diagnostici preventivi a tutti gli uomini con più di 50 anni (come l’antigene prostatico specifico, PSA). La seconda (europea) sottolinea come la letteratura non abbia ancora confermato la reale utilità di una diagnosi precoce, in assenza di sintomi, nel migliorare la sopravvivenza e le probabilità di guarigione.

Prevenzione secondaria

 lo screening La diffusione del dosaggio dell’antigene prostatico specifico (PSA) nell’ultimo decennio ha profondamente modificato l’epidemiologia di questo tumore, anche in senso qualitativo. L’emergere di forme clinicamente silenti e biologicamente non aggressive ha infatti reso più difficile la valutazione della diversa distribuzione dei fattori di rischio in passato correlati all’insorgenza di questa malattia.

Come si affronta

Nel trattamento del tumore della prostata esistono diverse opzioni di trattamento: chirurgia, ormonoterapia, radioterapia e chemioterapia. Con un’opzione in più, atipica: non eseguire nessuna operazione (attesa vigile). Molte forme di neoplasia prostatica non sono infatti molto aggressive, tendono a rimanere localizzate e a crescere poco. In questi casi, anche in considerazione dell’età del paziente, può risultare preferibile mantenere il quadro sotto controllo piuttosto che intervenire aumentando il rischio di effetti collaterali.

Chirurgia

 La prostatectomia radicale rimuove in blocco la ghiandola prostatica e le vescicole seminali ed è considerata la terapia standard per la cura del tumore prostatico localizzato, per le elevate percentuali di guarigione. Il miglioramento della tecnica chirurgica (ad esempio con il “nervesparing”) ha consentito una riduzione delle complicanze post-chirurgiche (es. disfunzione erettile e incontinenza), ma la loro frequenza e l’impatto sulla qualità della vita dei malati impongono un’accurata selezione dei pazienti. Dopo questo intervento, il PSA sierico non dovrebbe essere più dosabile. In caso contrario, è indice di mancata radicalità dell’intervento. La ricomparsa di livelli dosabili di PSA è espressione di ricaduta della malattia.

Radioterapia

Il trattamento radioterapico prevede solitamente l’irradiazione esterna. Il ciclo di terapia può protrarsi per alcune settimane. La durata dipende dal tipo di tumore, dalle sue dimensioni e dalla sua eventuale diffusione. In alcuni casi la radioterapia della prostata può dare: – fastidi a livello del retto e aumento della peristalsi intestinale – irritazione della regione anale – cistite – problemi di erezione. Questi effetti scompaiono di solito gradualmente nel giro di poche settimane dalla conclusione del trattamento, anche se quelli tardivi (come la disfunzione erettile) tendono a diventare permanenti. Ormonoterapia Il carcinoma prostatico dipende dagli ormoni maschili, gli androgeni. Può quindi essere curato con l’ormonoterapia (o terapia di deprivazione androgenica). I farmaci anti-androgeni sono di diversi tipi e possono agire in linea di massima: – impedendo la produzione degli ormoni maschili a livello del sistema nervoso centrale – bloccandone l’azione a livello periferico Inoltre possono essere utilizzati in associazione realizzando il cosiddetto blocco androgenico completo. Questo tipo di trattamento può causare: – gonfiore delle mammelle – vampate di calore – sudorazione eccessiva – incapacità di erezione – diminuzione del desiderio sessuale – stanchezza – aumento di peso – anemia Nei pazienti con malattia metastatica la terapia l’ormonoterapia rappresenta il trattamento di scelta in prima linea. La soppressione della produzione degli androgeni viene attuata attraverso inibizione della sintesi o del rilascio di gonadotropine ipofisarie (utilizzando analoghi LHRH) e antiandrogeni non-steroidei.

Come si formula la diagnosi?

Solitamente l’iter diagnostico comincia dal medico di medicina generale, che effettua una visita e raccoglie informazioni sulla storia familiare e sulle condizioni generali. Dopo la visita, se lo ritiene opportuno, può suggerire di consultare l’urologo per una più approfondita valutazione ed eventuale esecuzione di ulteriori esami.

Esplorazione rettale digitale: esame che l’urologo esegue, dopo aver indossato un guanto lubrificato, inserendo un dito attraverso l’ano per palpare la prostata, valutandone le dimensioni e la consistenza, e riscontrare l’eventuale presenza di noduli sospetti. Può essere fastidioso, ma in generale non è doloroso. Di solito, in presenza di tumore, la prostata risulta indurita e ‘nodosa’, mentre in presenza di iperplasia prostatica benigna è ingrossata, soda e liscia. In alcuni casi, potrebbe risultare normale alla palpazione, nonostante la presenza di un tumore.

Test del PSA: esame del sangue che consente di misurare il livello dell’antigene prostatico specifico (PSA), la proteina secreta dalla prostata che è normalmente presente in minima quantità nel sangue, ma il cui livello tende ad aumentare con l’età, in presenza di infezione urinaria o iperplasia prostatica benigna o di tumore della prostata. Tuttavia, il test non è sempre di univoca interpretazione anche perché può risultare nella norma nel 30% dei casi nonostante la presenza di tumore della prostata. Pertanto, l’interpretazione del risultato dell’esame deve essere sempre messa in relazione con l’età e con la storia clinica dell’individuo: ad esempio, un valore di 4 ng/ml può essere ‘normale’ in un uomo di 70 anni ma non lo è in un uomo di 50 anni. Altri fattori che possono influire leggermente sul livello di PSA e, quindi, sull’esito del test sono: un recente rapporto sessuale con eiaculazione; un’esplorazione rettale digitale (v. sopra); un’ecografia transrettale; manovre urologiche (inserimento di catetere, cistoscopi: ); minimi traumi causati dall’uso prolungato della bicicletta o della moto. In tali casi è consigliabile attendere qualche giorno prima di effettuare il test.

Dopo il trattamento il livello di PSA è utilizzato per valutare l’efficacia della terapia effettuata (chirurgia, radioterapia, brachiterapia) o per controllare l’evoluzione della malattia (in caso di ormonoterapia, chemioterapia).

Ecografia transrettale (TRUS): tecnica di diagnostica per immagini che utilizza gli ultrasuoni per visualizzare le strutture interne di una regione corporea. Si esegue inserendo delicatamente attraverso l’ano una piccola sonda che emette ultrasuoni. Le riflessioni degli ultrasuoni sono convertite in immagini per mezzo di un computer. Permette di misurare le dimensioni della prostata ed è di ausilio all’urologo come guida nell’esecuzione della biopsia (quando indicato).

Biopsia: consiste nel prelievo di alcuni campioni di cellule dalla prostata che sono poi inviati al laboratorio di anatomia patologica per l’esame istologico al microscopio. La biopsia si effettua, di solito, se dai primi accertamenti vi sia il sospetto di un tumore. Si esegue normalmente durante l’ecografia in anestesia locale attraverso un approccio transrettale o transperineale. Nel primo caso l’urologo introduce delicatamente l’ago attraverso il retto fino a raggiungere la prostata; nel secondo caso l’ago viene inserito nella zona cutanea tra i testicoli e l’ano. È prevista la somministrazione di antibiotici per prevenire eventuali infezioni.

La biopsia può essere fastidiosa e causare un sanguina-mento che, nella maggior parte dei casi, è leggero e si manifesta con tracce di sangue nelle urine e nello sperma nei giorni successivi.

Per la conformazione della prostata e per il tipo di tumore, la biopsia potrebbe dare un esito negativo anche in presenza di cellule tumorali. Se la biopsia è negativa, ma dall’esplorazione rettale rimane il sospetto di un tumore, potrebbe essere chiesto di ripetere la biopsia oppure l’esame del PSA a distanza di pochi mesi. Se il PSA risulta aumentato, si deve ripetere la biopsia. Se questa conferma il sospetto, può essere necessario eseguire ulteriori indagini per valutare se le cellule tumorali si sono diffuse ad altri organi.

Biopsia mirata con tecnica di fusione: questa metodica permette di effettuare delle biopsie prostatiche guidate mirate su aree sospette, identificate con risonanza magnetica, che sono poi coregistrate (‘fuse’) con le immagini dell’ecografia. Questa metodica è attualmente consigliata in casi selezionati oppure all’interno di studi controllati (per esempio in pazienti in sorveglianza attiva) e non rappresenta ancora un metodo di diagnosi alternativo in tutti i pazienti.

Scintigrafia ossea: tecnica di diagnostica per immagini molto sensibile che serve per rilevare la presenza di cellule tumorali nelle ossa. Si esegue nel reparto di medicina nucleare. Dopo l’iniezione di un ‘adiofarmaco in una vena del braccio, è necessario attendere fino a tre ore prima che si possa procedere all’esame. Il tessuto osseo infiltrato dalle cellule tumorali assorbe più radiofarmaco del tessuto sano, e di conseguenza appare più marcato. Al termine dell’esame si stampa una particolare radiografia dello scheletro. Anche se il livello di radioattività del radiofarmaco è molto basso e innocuo, è importante non allontanarsi dal reparto per l’intera durata dell’esame (circa tre-quattro ore), utilizzando alla sua conclusione i servizi igienici in modo che l’urina, leggermente radioattiva, confluisca in appositi raccoglitori.

La scintigrafia ossea è in grado di rilevare anche altre malattie dello scheletro. Per tale motivo un esito ‘positivo’ non necessariamente indica la presenza di un tumore. Pertanto il medico potrebbe richiedere altri accertamenti per confermare o escludere il sospetto.

Tomografia computerizzata (TC): tecnica di diagnostica per immagini che permette di rilevare la presenza di un tumore e di metastasi nella maggior parte degli organi del corpo. È comunemente nota come tomografia assiale computerizzata o TAC, ma l’aggettivo ‘assiale’ è oggi inappropriato, giacché le nuove tecniche di scansione volumetrica consentono di ottenere immagini su più piani e da angolature diverse. Un computer elabora le immagini così ottenute offrendo il quadro dettagliato del corpo ed eventualmente del tumore (indicando dimensioni e posizione). Per ottenere immagini ancora più chiare si può usare un mezzo di contrasto contenente iodio, che s’inietta in una vena del braccio. La TC è indolore ma si deve rimanere sdraiati e fermi il più possibile per circa 20 minuti.

Risonanza magnetica multiparametrica (MP-RM): rappresenta una particolare tipologia di esame RM, che prevede l’acquisizione di parametri multipli: la valutazione morfologica della ghiandola prostatica e delle strutture circostanti (sequenze T2), e la valutazione funzionale mediante la diffusione (mappa della densità delle cellule prostatiche, che aumenta in caso di neoplasia) e la perfusione (studio con mezzo di contrasto con una mappa della vascolarizzazione della prostata, che aumenta nelle neoplasie). Richiede un’apparecchiatura RM di ultima generazione, operante ad elevata intensità di campo magnetico (almeno 1,5 Tesla), e con una specifica dotazione di tecnologie e di software. Per la complessità dell’esame, sono state codificate delle linee guida internazionali, definite PI-RADS, per l’esecuzione e la refertazione dell’esame MP-MRI della prostata, che permettono una valutazione oggettiva delle lesioni prostatiche, assegnando loro un punteggio compreso tra 1 e 5, che rappresenta un indice di probabilità che la lesione rappresenti una neoplasia prostatica aggressiva.

Tomografia ad emissione di positroni (PET-TC): metodica di medicina nucleare che prevede la somministrazione, per via endovenosa, di una piccola quantità di radiofarmaco, che permette di ottenere informazioni importanti sull’attività metabolica del tumore in studio. Nel caso del carcinoma prostatico il radiofarmaco maggiormente utilizzato è la colina marcata con il C11 o con I’ F18; molto promettente è anche l’utilizzo del Ga68-PSMA. Dopo la somministrazione del radiofarmaco, il paziente dovrà stare in una sala d’attesa all’interno del reparto di medicina nucleare. Il periodo tra la somministrazione del radiofarmaco e l’esame dipende dal tipo di radiofarmaco utilizzato, generalmente di circa un’ora; successivamente il paziente verrà invitato a sdraiarsi sul lettino radiologico per l’acquisizione delle immagini. Al termine dell’esame il paziente potrà riprendere le sue normali attività.

Test di recente introduzione

Alcuni test sono stati valutati in studi clinici. Poiché il loro vantaggio rispetto al solo PSA sul singolo paziente è risultato complessivamente limitato, ad oggi non sono entrati nella routine clinica. I test disponibili in Italia sono:

PCA3: test che si effettua sulle urine prelevate dopo massaggio prostatico. La sua utilizzazione riguarda l’indicazione a ripetere una biopsia prostatica, dopo una prima negativa, in caso di sospetto persistente di malattia;

-2proPSA e il cosiddetto indice di salute prostatica PHI: test che si effettua sul sangue e che trova indicazione a decidere se effettuare la biopsia prostatica. Tuttavia l’impatto clinico non è ancora determinato per il beneficio modesto che aggiunge al processo decisionale. Allo stato attuale nessun esame può sostituire il test del PSA che continua a rimanere l’esame di primo livello.

La scala di Gleason e il Grade Group

L’aspetto delle cellule tumorali al microscopio e l’aggressività del tumore, ossia la rapidità con cui questo tende a crescere e a diffondersi ad altri organi, si valutano convenzionalmente attraverso il grading. Per i tumori della prostata, il metodo più usato è stato la scala di Gleason, che si basa su un punteggio da 2 a 10 (da 2 a 6: tumore generalmente a crescita lenta e con scarsa tendenza a diffondersi a distanza; 7: tumore di grado intermedio; da 8 a 10: tumore molto aggressivo). Quindi più basso è il punteggio, più basso è il grado del tumore.

Dal 2016 è stata proposta e progressivamente introdotta una nuova classificazione, chiamata Grade Group (GG), che distingue i tumori in 5 gruppi. Questa nuova classificazione presenta il vantaggio di una maggiore semplicità e immediatezza (il grado più basso è 1) e si correla meglio alla prognosi. Nella fase di transizione da una all’altra classificazione, sono entrambe riportate nei referti.



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