Chi è la moglie di Matteo Bassetti, Maria Chiara Milano Vieusseux



Era il 29 agosto, una domenica, nel tardo pomeriggio stavo aspettando l’inizio della seconda di campionato del mio amato Genoa – giocava in casa contro il Napoli – quando lessi la mail di una signora che mi avvisava del fatto che il mio numero di telefono cellulare fosse stato appena reso pubblico su un canale Telegram. Mi inoltrò anche gli screenshot che io, prontamente, inviai a Rachele per capire cosa stesse succedendo e soprattutto dove.



Cosa era questo canale Telegram? Quante persone lo seguivano? Dove era finito il mio numero? Qualcosa di strano, in effetti, era accaduto, perché da qualche decina di minuti ricevevo chiamate da numeri sconosciuti, squilli, messaggi strani.

Quella sera iniziò un mese intenso, in cui il rapporto tra me e il mio avvocato si fece quotidiano e soprattutto essenziale, fino ad arrivare al punto di decidere, in accordo con la Digos, di installare il mio account WhatsApp sul suo computer, in modo che potesse avere sotto controllo, in tempo reale, quello che stava succedendo, una situazione che, se non arginata e monitorata, avrebbe rischiato di degenerare incontrollata.

Quel giorno capimmo subito che l’intrusione nella mia vita privata e i pericoli che correvo potevano essere più che reali; già quella sera stessa ne ebbi contezza, quando venni aggredito verbalmente da un personaggio sconosciuto sotto casa mia. Ero andato a comprare dei sigarini, che fumo solo alla sera, poco lontano da casa, quando, prima di rincasare, un uomo iniziò a seguirmi insultandomi: «pezzo di merda» e chi più ne ha più ne metta.

Cercai di proseguire senza dargli peso, allungai il passo, quel ragazzo robusto in maglietta arancione continuava a seguirmi sul marciapiede e filmarmi con il suo telefonino: «Sto riprendendo tutto, lo vedranno tutti » continuava a dire, «Bassetti pezzo di merda, vieni qui, girati, ti ammazzo pezzo di merda». In quel momento ero agitato, non sapevo cosa avrebbe potuto fare se mi avesse raggiunto, superai la mia casa – “Se mi fermo vedrà anche i miei figli, vedrà dove abito” pensai – così andai dritto e chiamai, in diretta, la pattuglia della Digos, secondo le disposizioni che mi avevano dato.

I miei “angeli custodi” arrivarono in pochi minuti, assieme ad alcune volanti della Polizia di Stato che bloccarono prontamente il mio aggressore il quale, al suono delle sirene, tentò la fuga, nonostante io cercassi di intimargli di non andarsene; non appena le auto gli si pararono davanti venne bloccato, identificato e condotto in Questura per il foto segnalamento e la denuncia. Gli venne anche sequestrato il telefono cellulare con il quale aveva effettuato il video.

Da quella sera, Rachele iniziò a monitorare il canale Telegram, i social, a radunare materiale, scansionando ogni messaggio, ogni chat, unendo e incrociando i dati con quelli che ricevevo sul mio telefono: messaggi, chiamate, ogni singolo numero.

In poche ore, le chiamate erano state decine. Lunedì mattina alle nove in punto lei era già nel mio studio a farmi firmare i mandati: ero preoccupato, scosso da quanto accaduto la sera prima, questa volta qualcuno doveva darmi ascolto, non solo il mio avvocato e la Digos, ma anche la magistratura; questa volta avrebbe dovuto dare un segnale forte, senza temporeggiare, ormai le denunce erano almeno una decina, perfettamente istruite dal punto di vista investigativo, ma perse nei mille rivoli della burocrazia del palazzo di giustizia.

Ero come un paziente che ha la febbre a 39 da sei mesi e non si capisce cosa abbia: occorre l’intervento dell’infettivologo che faccia tutte le analisi più dettagliate, formuli una diagnosi e prescriva una terapia.

Qui ci voleva l’intervento della magistratura per capire e colpire chi rendeva a me e alla mia famiglia la vita impossibile. Ogni fascicolo era stato dato a un pm diverso, la sospensione durante il periodo estivo aveva comportato lo stop del palazzo di giustizia per oltre un mese, ma questa volta avevo bisogno che qualcosa cambiasse, volevo sentirmi protetto e che fosse protetta la mia famiglia. Per diversi giorni tenni un profilo molto basso, limitando le mie apparizioni nelle trasmissioni televisive, limitando i post sui social, sperando che quegli episodi fossero stati un caso isolato, ma non fu così.

La notizia della mia aggressione, comparsa su tutti i quotidiani e i media nazionali, fomentò ancora di più personaggi di quel tipo, nel canale Telegram non si faceva che congratularsi, il mio aggressore venne chiamato “eroe”, per il fatto di avere avuto il coraggio di venire sotto casa mia ad aggredirmi. La prima settimana di settembre fu infernale, non potevo lavorare, il telefono squillava di continuo, anche di notte, e sebbene il mio avvocato, nel giro di tre giorni, avesse depositato le denunce complete con tutto il materiale raccolto – nelle giornate di lunedì e martedì ricevetti oltre duecento tra chiamate e messaggi – la situazione non migliorava.



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