Joe Bastianich lo struggente viaggio nella guerra in Ucraina



Andare a vedere l’orrore con i propri occhi. Non solo le bombe e le minacce di un nuovo conflitto mondiale, ma anche la fuga di migliaia di persone che in una manciata di ore hanno dovuto decidere del loro destino raccogliendo l’essenziale per trovare salvezza lontano dalla follia. Un orrore che si sta consumando a circa 1.500 chilometri da noi, tanti ce ne vogliono per percorrere la strada che separa il confine italiano da quello ucraino, sul fronte polacco.



Lo ha fatto, tra gli altri, Joe Bastianich, da poco passato dal ruolo di super manager della ristorazione a inviato de Le Iene, il programma di approfondimento di Italia 1, che sta dedicando molta attenzione al conflitto ucraino. Il punto principale sono i profughi, ora, che a decine di migliaia si stanno spingendo verso i Paesi confinanti per chiedere asilo: i primi a uscire sono stati quelli che potevano contare su amici e parenti disposti a ospitarli oltre confine.

Bastianich ha documentato i primi arrivi, ha visto con i propri occhi la disperazione delle persone fuggite dalle loro case e dalle loro vite. L’imprenditore americano conosce bene questo orrore, vissuto dopo la fine della Seconda guerra mondiale anche dalla sua famiglia.

Joe, osservando e soccorrendo questa gente cosa hai provato? «Sono figlio e nipote di esuli istriani che quasi ottantanni fa furono costretti a scappare da un Paese che non era più Italia, era diventato Jugoslavia. La gente non poteva più parlare italia no, né andare in chiesa, non c’era più cibo. I miei fuggirono in America grazie al sostegno della Caritas. Ma l’esperienza terribile di un immigrato costretto a lasciare il proprio Paese rimane impressa anche nelle generazioni successive».

Raccontaci il viaggio che avete compiuto fino al confine con la Polonia. «Abbiamo guidato per oltre 1.200 chilometri, circa tredici ore di viaggio fino al valico di Krakovets. Con noi c’era Alina, una donna ucraina residente in Veneto che è andata a raggiungere al confine la madre, la sorella e la nipote. Solo le donne e i bambini possono uscire. Gli uomini che hanno più di 18 anni e meno di 60 sono stati costretti a rimanere in Ucraina per difendere il loro Paese».

Com’è stato parlare così a lungo con questa donna che sta vivendo anche lo strazio di una famiglia divisa? «Lei ha un unico figlio, Slavik, di poco più di 18 anni, che ha deciso di rimanere in Ucraina a combattere. E pensare che questo ragazzo ha la residenza e i documenti italiani, e fino a tre settimane fa, prima che esplodesse la guerra, si trovava in Veneto, al sicuro, ma ha voluto partire lo stesso, tornare in patria.

Alina era in pena, ovviamente, perché suo figlio non è allenato né preparato alla  guerra. Anche suo padre di 64 anni, pur potendo uscire dal Paese, ha deciso di rimanere. Nessuno è riuscito a convincerlo. Mi sono sentito vicino ad Alina, anche io ho un figlio di 19 anni, ma per fortuna, per il momento, non si trova davanti alla scelta di vivere o morire per il proprio Paese, anche se noi americani siamo ugualmente patriottici».

Alcuni uomini ucraini sono riusciti lo stesso a fuggire… «Sì, nelle prime andare o chi doveva restare. La sorella di Alina è medico e ha rischiato di non partire perché le professioni come la sua servono ora al Paese». Cosa avete trovato all’avvicinarvi al confine? «Decine di auto targate Ucraina provenienti dalla Romania, dalla Polonia, dalla Slovacchia con persone che accorrevano per accogliere parenti e amici».

E una volta arrivati alla dogana com’era la situazione? «Al di qua c’erano persone che aspettavano gli arrivi anche da giorni, dormendo in auto o accendendo piccoli fuochi con le sterpaglie per scaldarsi. Al di là, una fila di chilometri di auto, pullman ma anche moltissima gente a piedi, alcune donne che spingevano passeggini e tenevano i bambini piccoli per mano. E la temperatura era poco al di sopra dello zero. Ma poi, una volta passati, alcuni di loro non avevano nessuno ad attenderli e gli hotel nelle vicinanze erano stracolmi, costringendo molti di loro a camminare ancora».

I polacchi però Sì, si sono mobilitati subito, distribuendo tè caldo alle persone, portando generi di primo soccorso e pannolini per i bambini. Immediatamente sono state allestite tende con funghi riscaldanti dove le donne più anziane e i piccoli potessero riposare. C’era e c’è bisogno di tutto: è una vera e propria emergenza umanitaria». C’è stata una scena più straziante? «Vedere lo sguardo della gente persa, distrutta che non sa che cosa sarà del proprio futuro. Sapere che quelle persone avremmo potuto essere noi».



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