Omicidio di Simonetta Cesaroni si riaprono le indagini



Questo articolo in breve

Uno dei cold case più celebri e terribili della storia d’Italia potrebbe presto essere risolto. Ci sono infatti novità sull’omicidio di Simonetta Cesaroni, avvenuto a Roma il 7 agosto 1990. In quasi trentadue anni ci sono stati molti sospettati e sono state seguite piste diverse.



Ora la pubblico ministero Ilaria Calò, che già indagò anni fa e sostenne l’accusa contro il fidanzato della ragazza, Raniero Busco, poi assolto, ha riaperto le indagini, interrogando vari testimoni. Calò sta puntando l’attenzione su un individuo che era già comparso nell’indagine nei giorni successivi alla scoperta dell’omicidio e che subì diversi interrogatori. Secondo la pm quell’uomo, di cui non è stata rivelata l’identità, mentì sia sui suoi spostamenti sia sul fatto di non conoscere la vittima.

Simonetta Cesaroni aveva vent’anni quando fu uccisa. Il pomeriggio del 7 agosto era andata a sbrigare alcune pratiche negli uffici dell’Aiag, l’Associazione italiana alberghi della gioventù, società cliente dello studio di commercialista dove lei lavorava. Alle 21.30, non vedendola tornare a casa, la sorella Paola andò a cercarla nella sede dell’Aiag, in via Poma numero 2. Dietro la porta chiusa a chiave c’era il corpo di Simonetta. Era stata pugnalata 29 volte.

L’assassino aveva portato via i suoi pantaloni, gli slip, la giacca, gli orecchini d’oro, un anello, un bracciale e un girocollo sempre d’oro, mentre le aveva lasciato al polso l’orologio. Simonetta indossava ancora i calzini bianchi, le scarpe erano riposte da un lato, ordinatamente. Nell’ufficio tutto sembrava in ordine, il computer era acceso. L’assassino aveva colpito la ragazza al viso, in entrambi gli occhi, poi sul seno, sul ventre, sul pube.

Sul seno c’era anche il segno di un morso. Venne indagato il portiere dello stabile, Pietrino Vanacore, che aveva mentito sui suoi spostamenti quel pomeriggio. Arrestato, venne rilasciato ventisei giorni dopo perché il quadro indiziario non era abbastanza solido. Poi fu indagato Federico Valle, nipote dell’architetto che aveva disegnato il complesso delle sei palazzine di via Poma 2. Fu accusato dalle dichiarazioni di Roland Voller un pluripregiudicato che disse di aver saputo dalla madre di Valle che suo figlio era l’assassino.

Tutti i riscontri però diedero esito negativo. Quattordici anni dopo il delitto il Ris dei carabinieri sottopose ad analisi il corsetto e il reggiseno che Simonetta indossava il giorno in cui fu uccisa. Il Dna era attribuibile a quello di Raniero Busco, il ragazzo con cui all’epoca Simonetta aveva una relazione burrascosa.

Busco venne condannato a ventisei anni di carcere in primo grado e poi assolto al processo d’appello. L’assoluzione fu confermata dalla Corte di Cassazione. Secondo i giudici «la ricostruzione adottata nella sentenza di primo grado era suggestiva, ma ampiamente congetturale». Sembrava che l’omicidio di Simonetta Cesaroni dovesse restare per sempre senza colpevole. Forse invece, in base alle ultime notizie sulle indagini, non sarà così.



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