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“𝗡𝗼𝗻 𝗽𝗲𝗿𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼𝘀𝗼”, 𝗴𝗹𝗶 𝗿𝗶𝗱𝗮𝗻𝗻𝗼 𝗹𝗮 𝗽𝗶𝘀𝘁𝗼𝗹𝗮 𝗱𝗼𝗽𝗼 𝗹𝗮 𝗱𝗲𝗻𝘂𝗻𝗰𝗶𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹’𝗲𝘅: 𝗹𝗮 𝘂𝗰𝗰𝗶𝗱𝗲 𝗰𝗼𝗻 𝟳 𝗰𝗼𝗹𝗽𝗶



Ha svuotato il caricatore della pistola d’ordinanza contro sua moglie e l’amante di lei. Elisa Rattazzi, 32 anni, madre di due bambini, è morta lì sul colpo, strappata alla vita in una sera qualunque di maggio, mentre tutto intorno la città continuava a scorrere ignara. Giuseppe Cardella, 33 anni, operaio, si è aggrappato alla vita con le unghie e con i denti: ferite profonde, una delle quali ai testicoli, un dolore che segnerà il corpo e l’anima, ma almeno ha avuto la possibilità di continuare a vivere. È successo a Torino, nel 2008, in una via del quartiere popolare Barriera di Milano, tra palazzi grigi e finestre illuminate. Un femminicidio che oggi quasi nessuno ricorda, sepolto sotto le notizie di cronaca nera che si assomigliano tutte, ma che avrebbe ancora tanto da insegnare sul volto feroce e quotidiano della violenza di genere.



Raffaele Cesarano ed Elisa Rattazzi: la loro, sulla carta, doveva essere una storia d’amore. Ma “amore” è una parola che spesso viene usata per mascherare ciò che non lo è mai stato davvero. In realtà, la loro era una relazione tossica, un incendio che si nutriva di insicurezze, gelosie e promesse infrante, lasciando dietro di sé solo cenere. Elisa era una donna fragile, come tante che si ritrovano imprigionate in relazioni che non sanno più come lasciare, che non credono di meritare qualcosa di meglio. Lei e Raffaele, una guardia giurata, si erano conosciuti dieci anni prima in un bar, un incontro casuale che sembrava l’inizio di una nuova vita. Invece, da quel momento, la loro storia era stata un susseguirsi di tempeste: gelosie soffocanti, litigi furiosi, pianti a dirotto, riappacificazioni che duravano giusto il tempo di una tregua. Un tira e molla estenuante, che si era trascinato finché Elisa era rimasta incinta. La gravidanza, invece di portare stabilità, aveva solo peggiorato le cose. Decidono di sposarsi, forse sperando che il matrimonio potesse ricucire le ferite, ma presto si rendono conto che la vita matrimoniale non fa che affondarli ancora di più.

Raffaele era dipendente dal gioco d’azzardo. Ogni giorno sprecava tempo e denaro nelle sale giochi, inseguendo illusioni di riscatto che non arrivavano mai. Elisa, sempre più depressa, scivolava in un isolamento senza fine: passava le giornate a letto, a fumare una sigaretta dopo l’altra, incapace di prendersi cura di sé, della casa, dei loro bambini. I sintomi di una depressione profonda che nessuno intorno a lei voleva vedere davvero. Raffaele non capiva, o forse non voleva capire: interpretava il suo stato come pigrizia, come mancanza di volontà, e la giudicava senza pietà. Tra loro non c’era più empatia, solo incomprensione e rabbia. Gli amici sapevano la verità: quando Raffaele si arrabbiava, le mani diventavano armi. Schiaffi, pugni, calci: botte vere, che lasciavano lividi non solo sulla pelle, ma anche nell’anima. Eppure, come spesso accade, intorno a loro calava un silenzio pesante: la violenza domestica restava una faccenda privata, un segreto di famiglia, qualcosa di cui non si parla.

Poi, nella loro vita, era entrato Giuseppe Cardella. Amico della coppia, operaio semplice, una presenza apparentemente innocua. Ma anche le amicizie diventano pericolose in un contesto di gelosie e sospetti. Raffaele comincia a notare che Elisa vede Giuseppe sempre più spesso, o almeno così pensa lui. Un giorno lo trova in lacrime nel salotto di casa. “Chiedi a tua moglie, fatti spiegare da lei,” dice Giuseppe, lasciando la casa con un’ombra negli occhi. Da quel momento, per Raffaele, il dubbio diventa certezza: tra Elisa e Giuseppe c’è qualcosa. Elisa nega, ma il sospetto ormai si è annidato dentro di lui e cresce come un tarlo, corrodendo tutto. I litigi diventano ancora più violenti, le scenate più frequenti. Un giorno, accecato dalla rabbia, la picchia così forte che Elisa, in ginocchio, esasperata, gli urla: “Sparami alla testa.” Un grido di disperazione che dovrebbe far capire la misura della sofferenza vissuta, ma che invece non scuote Raffaele. Solo l’arrivo dei carabinieri, che gli portano via la pistola, mette fine a quell’ennesima notte di paura.

Quella, avrebbe dovuto essere la fine della loro storia. E invece no. La separazione, minacciata mille volte, diventa realtà. Si dividono i figli, firmano le carte per il divorzio, cercano di costruire una parvenza di normalità. Ma Raffaele non si rassegna. Continua a tempestare Elisa di messaggi, a chiederle di tornare insieme, a tormentarla con chiamate e richieste. La sua ossessione cresce, alimentata dal sospetto che Giuseppe, l’amico della coppia, sia diventato il nuovo compagno di Elisa. Inizia a rileggere ogni parola, ogni gesto, ogni ricordo, alla ricerca di prove che giustifichino la sua gelosia. Paranoie, ossessioni, pensieri fissi che si trasformano in rabbia. Intanto, la pistola che i carabinieri gli avevano tolto torna al suo posto, appesa alla cintura di Raffaele. Un dettaglio che pesa come un macigno: la Prefettura, nonostante la sua storia di violenza, decide che non ci sono motivi per preoccuparsi, nessun segnale d’allarme. Nessuno si prende la responsabilità di proteggere davvero Elisa. Quella pistola, simbolo di potere e controllo, diventa l’oggetto che cambierà per sempre le loro vite.

E così si arriva al 20 maggio 2008, il giorno scelto per il “chiarimento” tra le due coppie, in strada. È sera, all’incrocio tra via Fossata e via Rossi Lauro, nel quartiere dove Raffaele ed Elisa avevano vissuto insieme, condividendo sogni e delusioni. Raffaele pretende che Elisa e Giuseppe confessino la verità. Giuseppe nega tutto, cerca di difendersi. Elisa, invece, travolta dalla rabbia e dalla stanchezza, urla la verità che ha tenuto nascosta. Loro due litigano, mentre Raffaele li osserva, appoggiato al cofano dell’auto, con lo sguardo di chi si sente giudice e carnefice allo stesso tempo. Ma la sentenza è già scritta, la decisione già presa. Sul fianco, la pistola d’ordinanza. Raffaele la estrae, senza più alcun freno. Punta Elisa e spara sette volte, la uccide lì, davanti a tutti, davanti al loro passato che si dissolve in un istante. Poi rivolge la pistola verso Giuseppe: quattro colpi, uno diretto in basso, come a volerlo marchiare per sempre, a umiliarlo anche nella sopravvivenza. Dopo la sparatoria, non tenta nemmeno di fuggire. Rimane lì, immobile. “Ho ucciso mia moglie e l’amante,” dice ai carabinieri, che arrivano in pochi minuti. Loro lo conoscono già: sono gli stessi che avevano cercato di impedirgli di fare del male, togliendogli la pistola, ma che poi gliel’hanno restituita.

Il processo si conclude in fretta, senza clamore. Raffaele viene condannato a 18 anni per omicidio e tentato omicidio, una pena che suona quasi come una formalità di fronte all’irreparabile. La stampa dimentica presto il caso, come se fosse solo una delle tante storie di ordinaria violenza domestica, una statistica in più, un dramma che non fa più notizia. All’epoca, il termine “femminicidio” non era ancora entrato nel linguaggio comune. Nessuno, o quasi, si interrogava realmente su cosa avesse permesso a Raffaele di riavere la pistola, su come fosse stato possibile ignorare i segnali di pericolo, su come la tragedia si fosse potuta ripetere ancora una volta, identica a tante altre. La violenza sulle donne restava confinata tra le mura di casa, considerata un affare privato, un problema della coppia, non della società. Si voltava la testa dall’altra parte, si parlava di “gelosia”, di “amore malato”, mai di responsabilità collettiva.



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