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Enzo Iacchetti fuori controllo, accuse deliranti: arriva a tirare in ballo persino il giudice Falcone



Enzo Iacchetti, dopo la sua esperienza come leader dei pro-Pal, assume ora il ruolo di giurista.  Sui social media, ha pubblicato una citazione attribuita a Giovanni Falcone, il magistrato tragicamente scomparso nell’attentato di Capaci.



“Quando un Governo si oppone alla magistratura”, affermò il giudice siciliano, “significa che la mafia si è infiltrata nelle istituzioni”.  Si tratta di parole forti, ma completamente decontestualizzate rispetto all’attuale situazione italiana.

Si consideri, ad esempio, il conflitto tra governo e magistratura in merito alla separazione delle carriere.  Se fosse possibile interpellare il giudice Falcone, quale sarebbe la sua opinione su questa riforma della giustizia?  A prescindere dalle implicazioni paranormali, per rispondere a tale quesito è necessario risalire all’anno 1991.  In un’audizione al Consiglio Superiore della Magistratura, egli dichiarò: “Non sono contrario in linea di principio alla separazione delle carriere, ma solo se si assicura l’autonomia del pubblico ministero dal potere esecutivo”.

Come era prevedibile, il post di Iacchetti ha suscitato un dibattito tra i suoi follower.  Con questa presa di posizione, Iacchetti chiama in causa un magistrato-eroe, strumentalizzando le sue parole in un contesto e in un momento storico completamente diversi da quando il magistrato siciliano pronunciò tali affermazioni.

Interviste mai rilasciate e dichiarazioni mai pronunciate. In questo modo, il magistrato antimafia viene manipolato a piacimento.

A seguito di un recente articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano, sui social media è tornata a circolare un’immagine di Giovanni Falcone accompagnata da una citazione in cui gli si attribuisce un monito contro la separazione delle carriere: “Una separazione delle carriere può essere accettabile se viene garantita l’autonomia e l’indipendenza del pubblico ministero. Tuttavia, temo che si intenda, attraverso questa separazione, subordinare la magistratura inquirente all’esecutivo. Questo è inaccettabile”. La frase sarebbe stata pronunciata in un’intervista a Repubblica il 25 gennaio 1992.  Esiste un problema di fondo: tale intervista non è mai stata pubblicata.

Chiunque abbia accesso all’archivio storico di Repubblica può verificarlo. Il 25 gennaio 1992 non è presente alcuna traccia di un’intervista a Falcone.  Inoltre, la frase non corrisponde al suo stile. Giovanni Falcone non si esprimeva mai in slogan. Era un magistrato che ragionava in profondità, che ponderava ogni parola e che non si lasciava mai andare alla demagogia del momento.

Nell’archivio di Repubblica si trovano numerose altre interviste a Giovanni Falcone. Una in particolare, condotta da Giuseppe D’Avanzo il 26 settembre 1990, merita particolare attenzione.  In essa, D’Avanzo interroga Falcone sulla sua posizione riguardo alla dipendenza del pubblico ministero dall’Esecutivo, una questione che, se affrontata pubblicamente oggi, potrebbe suscitare forti reazioni.  D’Avanzo chiede: “Sta sostenendo che il pm deve essere non più dipendente dal Giudiziario ma ricadere nella sfera dell’Esecutivo?”. La risposta di Falcone è la seguente: “So che questa è un’accusa. Bene, di per sé non mi scandalizzerebbe un pm dipendente dall’Esecutivo. Non stiamo discutendo di categorie immutabili, ma di scelte di politica legislativa. Ciò che va bene in un paese può non andare bene in un altro e l’Italia è uno dei pochissimi paesi dove la pubblica accusa non è dipendente dall’Esecutivo. Tuttavia, ciò non è servito un granché nella lotta contro la criminalità organizzata. Anch’io, comunque, sono convinto che, nell’attuale momento storico, l’indipendenza del pm vada salvaguardata e protetta. Ma l’indipendenza non è un privilegio di casta”.

È difficile immaginare un magistrato contemporaneo che possa esprimere pubblicamente una simile posizione senza subire critiche aspre.  Falcone, invece, dimostrava un notevole coraggio intellettuale, affrontando questioni complesse con lucidità e senza rifugiarsi in semplificazioni retoriche.

Il vero pensiero di Falcone

Alla fine degli anni Ottanta, l’Italia ha introdotto una significativa riforma del proprio processo penale attraverso l’emanazione del nuovo codice, noto come riforma Vassalli. Tale riforma ha sancito l’adozione di un modello accusatorio, in cui il pubblico ministero assume il ruolo di “parte” nel processo, analogamente all’avvocato difensore, mentre il giudice è tenuto a mantenere una posizione di neutralità.  Giovanni Falcone, figura di spicco nel panorama giuridico italiano, aveva una chiara comprensione delle implicazioni di tale cambiamento. In un’intervista rilasciata a Repubblica nel 1991, Falcone spiegava: “Un sistema accusatorio presuppone un pubblico ministero che si occupa della raccolta e del coordinamento degli elementi probatori da presentare durante il dibattimento, in cui egli rappresenta una parte in causa.  Durante il dibattimento, il pubblico ministero non deve avere alcun legame con il giudice e non deve assumere il ruolo di una sorta di para-giudice, come avviene attualmente.  Il giudice, in questo contesto, si configura come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti.  Tale principio è contraddetto dal fatto che, a causa della formazione e delle carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e pubblici ministeri risultano, in realtà, indistinguibili l’uno dall’altro”.

Il ragionamento di Falcone era lineare: se nel nuovo processo il pubblico ministero assume il ruolo di “parte”, non può più essere considerato intercambiabile con il giudice.  Pertanto, sono necessarie una formazione, una carriera e competenze diverse per le due figure. Già nel 1988, in occasione dell’approvazione del nuovo codice, Falcone aveva affermato in un convegno: “In un codice che enfatizza in modo evidente le caratteristiche di parte del pubblico ministero, è impensabile che le carriere dei magistrati del pubblico ministero e quelle dei giudici possano continuare a rimanere indifferenziate per un lungo periodo”.

Nel corso di un intervento pubblico tenutosi nel 1990, il giudice Falcone affrontò con trasparenza e rigore una serie di tematiche di rilevanza cruciale per il sistema giudiziario.  Egli sottolineò la necessità di una revisione approfondita e di un riesame critico di questioni storicamente dibattute, quali i criteri di addestramento e di aggiornamento professionale del pubblico ministero, l’eventuale unicità delle carriere rispetto a quelle dei giudici, i parametri di valutazione e di progressione professionale, l’attribuzione degli incarichi direttivi e la loro eventuale temporaneità, la personalizzazione o meno degli Uffici del pubblico ministero, nonché i controlli istituzionali e le relative responsabilità dei magistrati.  Falcone ribadì con forza l’impossibilità di considerare argomenti-tabù o di erigere difese quasi sacrali di istituti giuridici, come ad esempio quello dell’obbligatorietà dell’azione penale.

Il giudice Falcone non intendeva creare zone franche o limitare la discussione a priori.  Egli si riferì all’“unicità delle carriere” come a un concetto da “ridiscutere ed approfondire”, non come a un principio intoccabile.  Egli mise persino in discussione l’obbligatorietà dell’azione penale, un istituto che oggi viene talvolta percepito come un dogma costituzionale.

Le affermazioni di Falcone non si inserivano in un contesto ideologico.  Egli presentava una proposta di natura pratica: la modifica del processo senza una contestuale differenziazione delle carriere rischiava di perpetuare lo status quo.  Il pubblico ministero continuava a svolgere un ruolo assimilabile a quello di un “quasi-giudice”, il giudice perdeva la neutralità percepita e le garanzie processuali si indebolivano.

L’introduzione della separazione delle carriere avrebbe consentito al pubblico ministero di ricevere una formazione adeguata, aggiornata e specializzata, in linea con le effettive esigenze della sua funzione, che oggi viene preparato per svolgere un mestiere sostanzialmente diverso da quello che dovrà poi esercitare.  Sono trascorsi oltre trent’anni dall’entrata in vigore del codice Vassalli.  Il processo penale ha subito significative trasformazioni, ma il dibattito sulla separazione delle carriere rimane aperto e divisivo.  Sorge spontanea la domanda: chi ha tratto vantaggio da questa ambiguità?  E quali sono le ragioni che ostacolano il completamento della riforma che il giudice Falcone già riteneva necessaria nel 1988?

La frase attribuita a Giovanni Falcone e diffusa sui social media si inserisce in una narrazione specifica: quella di un magistrato contrario alla separazione delle carriere per timore di una subordinazione della magistratura all’esecutivo.  Tale rappresentazione, tuttavia, risulta essere una distorsione della sua effettiva posizione.  Falcone non esitava a mettere in discussione le sacralità corporative.  Egli dichiarò che la dipendenza di un pubblico ministero dall’Esecutivo “non lo scandalizzerebbe”, pur riconoscendo la necessità di salvaguardare l’indipendenza nel contesto italiano.  Inoltre, affermò che l’indipendenza non costituisce un “privilegio di casta”.

Chi oggi attribuisce a Falcone affermazioni mai pronunciate, gli imputa timori inesistenti e lo presenta come un difensore dello status quo che egli stesso criticava, compie una duplice operazione: mistifica il suo pensiero e, soprattutto, gli manca di rispetto. Falcone non deve essere strumentalizzato a seconda delle convenienze.  Egli non lo desiderava in vita, né dovrebbe esserlo post mortem.  Il minimo che gli si deve è consultare le sue effettive dichiarazioni scritte e orali, non quelle che qualcuno vorrebbe che avesse pronunciato.

Le sue parole sono disponibili negli archivi, nelle interviste autentiche e negli atti dei convegni.  Basta possedere l’onestà intellettuale di ricercarle e il coraggio di accettare che il loro contenuto potrebbe non coincidere con le proprie convinzioni.



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