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Francesca Albanese commenta l’esultanza a Gaza: “Non è una festa, è solo stanchezza che si libera”



L’accordo di pace siglato tra Israele e Hamas, che ha portato al rilascio di ostaggi e alla liberazione di quasi 2.000 prigionieri palestinesi, ha suscitato reazioni contrastanti. Mentre le piazze di Israele e Palestina si sono animate di festeggiamenti per la prima volta in due anni, alcuni politici e opinionisti di sinistra, tra cui Francesca Albanese, hanno espresso forti riserve riguardo alla storicità di questa intesa. La relatrice speciale delle Nazioni Unite sui Territori palestinesi occupati ha messo in dubbio i benefici dell’accordo, affermando che “per i palestinesi rischia di trasformarsi in apartheid nella sua forma peggiore.”



In un’intervista con la troupe di Quarta Repubblica, Albanese ha criticato l’atmosfera festosa che ha caratterizzato le celebrazioni, sottolineando che “non è festa, è fatica che si scarica.” Questa dichiarazione ha suscitato polemiche e ha evidenziato un divario tra le esperienze vissute dai palestinesi e le percezioni di chi osserva da lontano. La sua posizione si inserisce in un contesto più ampio di disillusione e scetticismo da parte di alcuni settori della sinistra, che sembrano rimanere ancorati a una visione pessimistica della situazione.

In questo clima, è emersa la figura del “partito dell’era meglio la guerra”, un gruppo di pensatori e politici che si oppongono al processo di pace. Mentre leader politici, tra cui Bill Clinton e Joe Biden, riconoscono l’importanza storica di questo accordo, alcuni continuano a minimizzare il significato di questo passo avanti. La narrativa di chi sostiene che “il piano di pace entrerà in fase 2 e sarà un fallimento” è diventata predominante tra questi critici. La fine della carneficina, purtroppo, non sembra essere sufficiente a cambiare le loro opinioni.

In un articolo su Repubblica, si legge che “la guerra travestita da pace nello show del Donald-day” riflette un atteggiamento di sfiducia nei confronti del processo di pace. Le reazioni di alcuni politici sono state caratterizzate da un evidente malcontento, senza che emergesse una soddisfazione per la cessazione delle ostilità. Questo scetticismo si traduce anche in un’incapacità di mobilitare le masse, poiché non ci sono più motivi per organizzare scioperi o manifestazioni a favore della causa palestinese.

Il clima di tensione è palpabile anche in eventi locali, dove manifestazioni contro la decisione del Consiglio comunale di Milano di non revocare il gemellaggio con Tel Aviv hanno portato a scontri con la polizia. Gli studenti che continuano a occupare spazi pubblici al grido di “Palestina libera” sembrano ignorare gli sviluppi attuali, rimanendo ancorati a una narrazione che non tiene conto dei cambiamenti in atto.

Questa situazione crea un contrasto netto con l’ottimismo che si respira altrove nel mondo. Mentre diverse comunità si uniscono per festeggiare la fine di un conflitto che ha causato sofferenze innumerevoli, alcuni esponenti della sinistra italiana sembrano rimanere intrappolati in una visione pessimistica. La loro reazione è caratterizzata da musi lunghi e silenzi, un atteggiamento che si oppone alla necessità di una mediazione costruttiva e di un dialogo aperto.

L’atteggiamento di Francesca Albanese e di altri critici del processo di pace suggerisce una difficoltà a riconoscere i progressi compiuti. La loro posizione, che sembra rifiutare qualsiasi forma di ottimismo, contribuisce a un clima di sfiducia e di isolamento. Quello che emerge è un piccolo mondo triste, in cui la sinistra politica e intellettuale si ritira in uno scetticismo che non favorisce il dialogo né la costruzione di un futuro migliore.



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