Non è mai stato facile tra me e Claudia, la figlia di mio marito. Dopo il matrimonio con suo padre, il nostro rapporto si era incrinato subito. Mi guardava con diffidenza, come se avessi rubato qualcosa. Non ci parlavamo da mesi. Forse da un anno.
Poi, un pomeriggio, squilla il telefono. Era lei. La sua voce era allegra, quasi forzata.
«Ciao, volevo sapere se ti va di pranzare insieme, magari da Donatello’s?»
Un ristorante elegante, caro. Non me lo aspettavo. Ma il mio cuore si è riempito di speranza. Forse stava cercando un modo per ricucire.
«Certo, con piacere», ho risposto senza esitare.
Arrivo qualche minuto in anticipo. Lei si presenta poco dopo, con un bel sorriso, anche se gli occhi sembrano tesi. Ci sediamo.
Claudia comincia a ordinare: aragosta, filetto, un calice di vino costoso. Io prendo solo un’insalata. Cerco di iniziare una conversazione, ma ogni mio tentativo si scontra con risposte brevi, vaghe.
«Come va il lavoro?»
«Bene.»
«Hai sentito tuo padre ultimamente?»
«Sì.»
E poi di nuovo lo sguardo fisso sul telefono. Ogni tanto si gira, come se aspettasse qualcuno.
Quando il cameriere posa il conto sul tavolo, sto per prendere il portafoglio. Ma lei lo ferma con un gesto rapido e gli sussurra qualcosa. Poi si alza in fretta.
«Scusa, vado un attimo alla toilette», mormora.
Aspetto. Cinque minuti. Dieci. Quindici. Il cameriere torna, imbarazzato.
«Signora, la sua… ehm… accompagnatrice è uscita poco fa.»
Esco di corsa. Il suo posto è vuoto. Il suo telefono staccato. Nessun messaggio. Nessuna spiegazione.
Pago il conto, con un nodo alla gola. Non per i soldi. Per il colpo al cuore.
Mi sono sentita usata. Non era un invito per ricominciare, era solo un modo per approfittarsi di me.
Esco dal locale, ancora frastornata. Sto per andarmene, quando sento un rumore alle mie spalle.
Mi voltai di scatto, allarmata da quel rumore improvviso. Era il suono di un bicchiere caduto da un vassoio, ma per un attimo avevo sperato fosse lei. Claudia. Che tornasse indietro, magari pentita, magari pronta a chiedere scusa.
Ma non era così.
Uscii dal ristorante con la sensazione di avere un macigno sul petto. Non era per il conto salato o per la figuraccia. Era per quella speranza tradita.
Avevo davvero creduto, anche solo per un attimo, che volesse riprovarci. Che volesse conoscermi per chi sono, e non per chi ha sposato suo padre.
Salgo in macchina e resto lì seduta per qualche minuto, con le mani ferme sul volante e gli occhi fissi sul vuoto. In testa, mille pensieri. Mi chiedevo da dove ripartire. Se valesse ancora la pena provarci.
Poi, una notifica. Un messaggio sul telefono.
Era suo padre.
“Com’è andata con Claudia? Era tanto felice di vederti.”
Felice?
Inspirai profondamente. Per un istante ebbi l’impulso di rispondere di getto, di raccontargli tutto. Ma poi, qualcosa dentro di me si fermò. Non volevo più giustificarmi. Né farmi compatire.
Scrissi soltanto:
“Abbiamo pranzato. È stato… istruttivo.”
Riposi il telefono. Accesi il motore. E mi allontanai, più lucida.
Non ero io quella che aveva fallito quel giorno.
Per la prima volta, non mi sentii più una matrigna rifiutata.
Mi sentii una donna che ha dato tutto il possibile, anche quando non era tenuta a farlo.
E mentre guidavo verso casa, capii che a volte non tutte le relazioni si possono aggiustare. Ma anche questo è un atto d’amore: lasciare andare chi non vuole restare, e smettere di cercare conferme dove non ce ne saranno mai.
Ma chissà.
Forse un giorno, Claudia capirà.
E se succederà, saprà dove trovarmi.
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