Il recente voto del Parlamento europeo riguardante Ilaria Salis ha sollevato interrogativi significativi sulla condizione dello stato di diritto in Ungheria. La decisione di escludere Salis dal processo di voto ha portato a una certificazione implicita che l’Ungheria non rispetta i principi democratici fondamentali. Questo sviluppo ha riacceso il dibattito sulla necessità di una revisione della posizione dell’Ungheria all’interno dell’Unione Europea, suggerendo che la sua espulsione potrebbe essere una conseguenza logica e necessaria.
L’entrata dell’Ungheria nell’Unione nel 2004, avvenuta sotto la guida della commissione presieduta da Romano Prodi, viene ora messa in discussione. L’atto di accettare l’Ungheria, insieme ad altri nove stati, è visto come un errore che ha contribuito a creare una situazione complessa all’interno dell’Unione. Oltre all’Ungheria, anche paesi come Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Cechia, Slovacchia e Slovenia sono stati inclusi in quella che è stata definita una “spensierata imbarcata” nell’Unione.
Il principio secondo cui “più gente entra, più bestie si vedono” sembra trovare conferma nei disastri politici e sociali che ne sono seguiti. In particolare, la tensione crescente in Europa è alimentata da paesi come Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania, che si trovano in prima linea in un contesto geopolitico instabile. Questi stati, pur avendo una popolazione complessiva simile a quella di Roma, esercitano un’influenza significativa nelle istituzioni europee, occupando posizioni chiave in ambiti come l’Economia, gli Esteri e la Difesa.
Le dichiarazioni recenti di ex leader politici, tra cui quella di Angela Merkel, hanno evidenziato le responsabilità storiche di questi paesi nel deterioramento dei rapporti tra l’Unione Europea e Mosca. In particolare, la Merkel ha sottolineato come le azioni dei baltici e dei polacchi abbiano contribuito alla rottura del dialogo che avrebbe potuto prevenire l’attuale conflitto in Ucraina.
Inoltre, la posizione di Estonia, Lettonia e Lituania riguardo ai gasdotti Nord Stream ha suscitato ulteriori polemiche. Questi paesi si sono opposti a tali infrastrutture, che rifornivano l’Europa di gas metano russo a prezzi competitivi, contribuendo così alla prosperità economica del continente. La distruzione di questi gasdotti ha portato a una serie di accuse e speculazioni, con il ministro degli Esteri polacco, Radosław Sikorski, che ha esultato pubblicamente per l’attentato, ringraziando gli Stati Uniti.
Tuttavia, le indagini successive hanno rivelato che l’attacco ai gasdotti era stato perpetrato da gruppi di terroristi di Stato ucraini, con legami diretti con la Polonia. Questi eventi hanno sollevato interrogativi sull’efficacia delle indagini e sulla trasparenza delle informazioni fornite dalle autorità ucraine e polacche. Un sospetto è stato identificato in Polonia, mentre un altro è attualmente detenuto in Italia in attesa di estradizione. Un terzo sospetto, identificato come Volodymyr Z., è stato recentemente arrestato in Polonia.
In questo contesto, il premier polacco Donald Tusk ha rilasciato dichiarazioni controverse, affermando che “il problema del Nord Stream non è che sia stato fatto saltare, ma che sia stato costruito”. Questa affermazione ha sollevato dubbi sulla sua posizione e sull’impatto che tali dichiarazioni possono avere sulla stabilità della regione. Tusk ha anche sostenuto che “non è nell’interesse della Polonia consegnare questo cittadino a un altro Stato”, ignorando il fatto che tali decisioni dovrebbero spettare ai giudici e non al governo.
La situazione attuale in Polonia e nei paesi baltici mette in luce le complessità delle relazioni internazionali e le sfide che l’Unione Europea deve affrontare. La crescente influenza di questi stati, unita a una retorica bellicosa, solleva interrogativi sulla direzione futura dell’Unione e sulla coesione interna tra i suoi membri. La domanda che sorge spontanea è: quali saranno le conseguenze di queste dinamiche politiche sulla stabilità e sull’unità dell’Unione Europea?



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