La missione umanitaria della Global Sumud Flotilla, partita da Catania con l’obiettivo di portare aiuti a Gaza, si è trasformata in un’esperienza amara per una giornalista italiana incaricata dal suo quotidiano, La Stampa, di raccontare le fasi della spedizione. Invitata dagli organizzatori a partecipare come osservatrice esterna, la cronista è stata successivamente allontanata dalla missione e accusata di aver divulgato “informazioni sensibili”.
L’invito e l’inizio del reportage
La giornalista aveva ricevuto ad agosto la proposta di unirsi all’iniziativa da un’attivista conosciuta in precedenza. Dopo un confronto con la portavoce italiana della missione, Maria Elena Delia, era stato dato l’ok: “Ne saremmo felici”, le aveva risposto.
Il giornale aveva aperto una rubrica quotidiana online per seguire il “diario di bordo” della spedizione, iniziato già durante il periodo di preparazione. Nel racconto erano state riportate le attività formative e gli esercizi basati sulla non violenza, come previsto dal manuale distribuito ai partecipanti.
All’arrivo al training, i partecipanti erano stati invitati a consegnare i cellulari e sottoposti a controlli di sicurezza. La cronista aveva chiesto di poter scrivere all’esterno durante le attese, ricevendo però un rifiuto. Nonostante ciò, altri giornalisti esterni alla missione avevano avuto accesso con telecamere e macchine fotografiche.
Nei giorni successivi la reporter aveva registrato un crescente clima di diffidenza: scarsa disponibilità a parlare, impossibilità di avvicinarsi alle imbarcazioni e ritardi nella partenza. Un episodio emblematico, da lei riportato solo a posteriori, riguardava un attivista sorpreso con un sacchetto di McDonald’s e l’invito a cancellare eventuali riprese.
Dopo essere stata rimossa dalle chat di gruppo senza spiegazioni, la giornalista ha ricevuto una telefonata da un membro del Direttivo, Simone, che le comunicava la decisione di escluderla. Il motivo: la diffusione di informazioni ritenute rischiose per la sicurezza.
In un successivo confronto con la portavoce Delia, era sembrato possibile trovare un accordo per un maggior dialogo e una regolamentazione dei contenuti da pubblicare. Ma poche ore dopo, altri membri del Direttivo – fra cui lo stesso Simone e un’attivista che non si è presentata – le hanno ribadito la scelta: “Non possiamo fidarci di te. Sei una giornalista pericolosa. Il tuo giornale ci ricopre tutti i giorni di m**a”*.
La reporter ha raccontato di essere stata accompagnata fuori dal porto, privata della possibilità di rientrare a Catania con il resto del gruppo e costretta ad attendere ore sotto il sole, con il passaporto restituito solo al momento dell’espulsione.
Una riflessione sul ruolo del giornalismo
L’inviata sottolinea come il suo lavoro sia stato percepito come “non allineato” agli scopi della missione. “Quando ho accettato di salire a bordo della Flotilla, speravo di poter fare quello che la mia professione comporta: osservare e riferire. Senza addomesticare. Né farsi addomesticare”, ha dichiarato.
Pur ribadendo la bontà dell’iniziativa umanitaria e la necessità di portare aiuti a Gaza, la giornalista ha evidenziato i rischi che derivano dall’allontanare voci indipendenti: “Quando uno sguardo viene escluso perché non lo si considera utile allo scopo, si perde un’occasione. Quella di capire un po’ meglio il mondo che ci circonda”.
L’episodio ha sollevato interrogativi sul rapporto tra attivismo e informazione, in particolare su quanto la tutela della sicurezza possa entrare in conflitto con la libertà di stampa e con la necessità di un racconto imparziale delle missioni umanitarie.



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