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Una Storia su Crescere, Lasciare Andare e Tornare



Faccio la babysitter part-time.
La bambina di cui mi occupavo aveva circa due anni quando imparò ad andare in bagno da sola. Un giorno, mentre giocava concentratissima, si alzò di colpo, si bloccò e la pipì le scese lungo la gamba.



«Hai avuto un piccolo incidente?», le chiesi.
Con un’aria serissima mi rispose:
«No. È stato il pavimento ad avere un incidente.»

Scoppiai a ridere così forte che mi vennero le lacrime agli occhi.
Quell’episodio mi è rimasto impresso per anni. I bambini sanno essere esilaranti senza nemmeno provarci.
Ma, se ci pensi, è anche un piccolo ritratto di come molti adulti affrontano i propri pasticci: danno la colpa al pavimento.

Si chiamava Tilly. Piccola, capelli castani, piena di fantasia.
I suoi genitori, entrambi infermieri, lavoravano a orari impossibili. Avevo iniziato a occuparmi di lei quando era appena un batuffolo di un anno.
All’inizio lo facevo solo per dare una mano, ma da qualche parte lungo il cammino mi ha rubato un pezzo enorme di cuore.

Avevo ventiquattro anni, una laurea in Lettere e nessuna idea di cosa farne. Fare la tata pagava l’affitto e mi lasciava respirare.
Mi dicevo che era una soluzione temporanea, finché non avessi trovato un “vero lavoro”.

Ma i giorni divennero mesi, e i mesi anni.
E tra canzoncine da bagno e fiabe della buonanotte, capii che non volevo andarmene.

Tilly cresceva in fretta. Era sveglia, curiosa e “strana” nel modo più meraviglioso.
Metteva i cracker Goldfish nella purea di mele e lo chiamava “minestrone”.
Il suo peluche preferito, una giraffa che aveva battezzato Detective Sandwich, indagava sempre su chi avesse mangiato l’ultimo biscotto (spoiler: era lei).

Avevamo le nostre routine.
Le mattine erano per leggere, i pomeriggi per passeggiare.
Nei giorni di pioggia costruivamo tende con le coperte e fingevamo che il salotto fosse la luna.
Io le portavo panini a forma di stella e lei fingeva di fluttuare in assenza di gravità.

Non era solo babysitting.
Era guardare qualcuno diventare una persona.

I suoi genitori, Sarah e Damien, mi trattavano come una di famiglia.
Mi invitavano a cena, mi lasciavano biglietti di ringraziamento.
Un anno, per il mio compleanno, Tilly mi regalò un biglietto disegnato da lei: un cuore storto e la scritta “Ti voglio bene, Miss Annie.”
Lo conservo ancora nel portafoglio.

Poi arrivò il giorno in cui iniziò la scuola.

Quella mattina indossava un vestitino giallo e uno zainetto grande quasi quanto lei.
Le sistemai i capelli in due piccoli chignon e le misi un adesivo con un dinosauro sul pranzo.
Lei era emozionata. Io cercavo di non piangere.

Dopo averla lasciata, restai venti minuti in macchina, a guardare la recinzione del parco giochi.
Per la prima volta dopo anni, non c’era nessuno ad aspettarmi a casa.
Mi colpì più di quanto immaginassi.

Col tempo, le mie ore con Tilly diminuirono.
Tra la scuola e le attività pomeridiane, mi chiamavano sempre meno.
Così, iniziai davvero a cercare lavoro.

Trovai un impiego in una casa editrice.
Niente di grandioso — correzioni di bozze, riunioni, scadenze — ma era “il passo da adulti” che pensavo di dover fare.

Quando comunicai la mia decisione a Sarah e Damien, piangemmo tutti.

Tilly non capiva bene.
«Perché devi andare via?» mi chiese una sera, accoccolata sulle mie ginocchia.

«Perché tu stai crescendo,» risposi accarezzandole i capelli, «e anche io devo crescere un po’.»

Mi guardò seria. «Mi vedrai ancora?»

Le promisi di sì. E lo credevo davvero.

Ma il tempo è strano.
La vita si riempie di impegni.
Ci scrivemmo qualche volta, ci scambiammo biglietti di compleanno, ma le visite divennero rare.
Io ottenni una promozione, mi trasferii, iniziai una relazione.
Gli anni passarono.

Tilly compì dieci, poi undici anni.

Una sera, scorrendo le vecchie foto sul telefono, trovai un video di lei da piccola: ballava in tutù e stivali di gomma sulle note di “Twinkle Twinkle Little Star.”
Risi.
Poi piansi.
Sembrava un’altra vita.


Tre settimane fa, una mattina di pioggia, ero in un bar quando mi squillò il telefono.
Numero sconosciuto. Stavo per ignorarlo, ma qualcosa mi spinse a rispondere.

«Annie?»
Era Sarah. La voce tremava.

«Siamo in ospedale,» disse. «Damien ha avuto un collasso… un ictus massivo. È grave.»

Mi mancò il respiro.
«Puoi venire?»

Non ci pensai nemmeno.
«Arrivo subito.»

Corsi in auto.
Quando arrivai, trovai Sarah in corridoio, pallida e distrutta.
L’abbracciai forte.
Poi vidi Tilly.

Quasi non la riconobbi.
Alta, magra, con gli occhiali.
Ma appena i nostri occhi si incontrarono, ci mettemmo a piangere insieme.

Ci stringemmo a lungo.

Damien non ce la fece.

I giorni successivi furono un vortice di dolore, silenzi e casseruole lasciate dai vicini.
Rimasi con loro quella settimana.
Cucinavo, facevo la spesa, stavo accanto a Tilly quando fissava la TV senza parlare.

Una sera la trovai rannicchiata nel vecchio maglione del padre.
«Non so come si fa,» sussurrò.

«Lo so,» le dissi. «Ma non devi farcela da sola.»

Parlammo a lungo.
Mi chiese se il paradiso esistesse. Le dissi che io credevo di sì.
Mi chiese se fosse giusto arrabbiarsi. Le dissi che sì, lo era.
Quando finalmente si addormentò, rimasi seduta accanto a lei fino al mattino.


Nelle settimane successive tornai spesso.
Il lavoro fu comprensivo. Usai tutte le ferie, senza rimpianti.

Un giorno la ripresi da scuola.
Durante il tragitto, restò in silenzio finché, a un semaforo, disse:
«Ti ricordi quando il pavimento aveva avuto un incidente?»

Scoppiai a ridere. «Come potrei dimenticarlo?»

Lei sorrise piano. «Ci pensavo ieri. Non volevo ammettere di aver sbagliato, anche se era colpa mia.»

«Succede a tanti,» risposi.

Annui. «Ma ora penso che sia meglio dire la verità. Anche se fa paura.»

Cresceva. Troppo in fretta.


Con il tempo, le cose si stabilizzarono.
Sarah tornò al lavoro.
Tilly iniziò la terapia.
C’erano ancora giorni duri, ma non più tutti i giorni.

Un pomeriggio venne da me con qualcosa dietro la schiena.
«Ti ho fatto un regalo,» disse.

Mi porse un piccolo quaderno.
Sulla copertina c’era scritto: “Il Libro dei Ricordi di Miss Annie.”

Dentro, disegni, storie e momenti dei nostri anni insieme.
Una pagina mostrava il Detective Sandwich con un monocolo.
Un’altra, la nostra “fortezza lunare” nel salotto.

Ma l’ultima pagina mi fece piangere davvero.
C’era il disegno di una bambina che teneva la mano di una donna più alta.
Sopra, in calligrafia incerta, le parole:

“Grazie per non essere mai andata via — anche quando sei andata via.”


Quella sera, seduta sul portico con Sarah, parlammo di Damien, del dolore, della vita.
Mi disse che Tilly non rideva così da mesi.
E che ero tornata nel momento perfetto.

Io le confessai che non sapevo più chi fossi per loro.
Non ero più la tata.
Non ero famiglia.
Ma non mi sentivo neanche solo un’amica.

Sarah sorrise. «Sei quello di cui ha bisogno. E secondo me, sei ancora la sua persona.»

Così restai.

Non a tempo pieno.
Ma abbastanza.
L’aiutavo con i compiti, la portavo a calcio, cenavo con loro due volte al mese.

Continuai il mio lavoro in casa editrice.
Ma ricominciai a scrivere.
Racconti brevi, ispirati alla vita vera.
Molti avevano per protagonista una bambina dagli occhi grandi e una giraffa di nome Detective Sandwich.

E poi, successe qualcosa di inaspettato.

Un editore notò uno dei miei racconti pubblicati online e mi chiese se volessi scrivere un libro per bambini.
Dissi sì.

Uscirà la prossima primavera.

Il titolo?
“Il Pavimento Ha Avuto un Incidente.”

È la storia di una bambina curiosa che sbaglia, impara ad assumersi le proprie responsabilità e trova il coraggio di crescere.
È divertente, dolce e piena di cuore.
Ed è dedicato a Tilly.

Il paradosso?
Quel momento buffo, quella frase detta da una bimba di due anni per evitare una colpa, è diventata l’episodio che mi ha cambiato la vita.



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