Oltre 900mila italiani sono ricchi ma non lo sanno: scopriamo il perché



Questo articolo in breve

Trenta miliardi (30) di euro non sono pochi. E si tratta di una sorta di tesoro rinchiuso nei cassetti delle assicurazioni che in alcuni potrebbero tornare alla luce e finire nelle tasche o nei conti correnti di tanti italiani che, per un motivo o per un altro, non sanno di dover incassare un piccolo patrimonio.



Andiamo con ordine. Secondo quanto scrive Libero, l’Istituto di vigilanza per le assicurazioni (IVASS) nel dicembre del 2017 ha dato il via ad un monitoraggio sulle assicurazioni italiane. Al maggio 2018 ci sono circa 900mila contratti ancora da controllare “e vedere se i legittimi proprietari sono ancora in vita o i legittimi eredi possono incassare” una bella sommetta.

Il presidente dell’Ivass, Salvatore Rossi, ha voluto mettere il naso su quelle polizze che le assicurazioni avrebbero fatto “impropriamente” ammuffire nei propri forzieri. Si tratta delle cosiddette “polizze dormienti”. E così ha chiesto i dati degli intestatari e li ha incrociati con quelli dell’Agenzia delle entrare, riuscendo per il momento a scovare ben 187mila polizze che dovranno essere versate a ignari cittadini. Si tratta per ora di una cifra complessiva di 3,5 miliardi di euro. Mica male. Nel 62% dei casi erano prodotti di risparmio giunti a scadenza (1,5 miliardi di valore) e poi c’è un 38% di contratti di assicurati deceduti mai reclamati dagli eredi (valore da quasi 2 miliardi di euro).

“Entro il 30 ottobre 2018 – si legge però in una nota ufficiale diffusa nei giorni scorsi dall’Istituto per la vigilanza e riportata da Libero – le imprese dovranno comunicare all’Ivass i codici corretti per un nuovo incrocio con l’anagrafe Tributaria; sarà richiesto anche di inviare ulteriori codici fiscali relativi alle polizze scadute nel 2017 e nel quinquennio 2001-2006, arrivando così a coprire in totale 16 anni di possibile dormienza”. Da questo confronto potrebbero uscire altri intestatari fortunati tra quei 900mila contratti ancora da analizzare.

Concentrandosi sui dati della povertà assoluta9 , è possibile definire l’identikit di chi ha più probabilità di ritrovarsi tra coloro che non riescono a soddisfare i fabbisogni essenziali per condurre una vita dignitosa. Colpisce che nel 2015 la povertà assoluta ha interessato un minore su dieci. Un’incidenza molto alta, il 10,9%, che fa registrare un aumento rispetto all’annualità precedente e un dato quasi triplicato rispetto a dieci anni fa. Altrettanto preoccupante la condizione dei giovani (tra i 18 e i 34 anni di età) e dei lavoratori (tra i 35 e i 64 anni di età): rispettivamente l’incidenza della povertà assoluta riguarda il 9,9% dei giovani e il 7,2% dei lavoratori. Osservando i dati sull’incidenza della povertà assoluta si può osservare come questa diminuisce all’aumentare dell’età della persona di riferimento (il valore minimo è registrato per nuclei familiari con capifamiglia over64) e del suo titolo di studio (se la persona di riferimento è almeno diplomata la sua condizione di vita è sicuramente migliore).

Questo fenomeno è indicativo di una società in cui si mantiene pressoché stabile il benessere degli anziani, mentre si deteriora fortemente quello delle giovani generazioni a cui l’accesso al lavoro è in molti casi precluso,  e quello dei lavoratori la cui condizione di precarietà occupazionale, soprattutto per le categorie meno qualificate (inclusi gli operai), ha portato nel tempo alla formazione di una nuova categoria di poveri: i “working poors” ovvero gli occupati esposti al rischio di povertà per il basso livello di stabilità della propria condizione lavorativa. A fare le spese dell’essere povero in Italia ci sono inoltre le famiglie numerose che in misura prevalente si ritrovano in condizioni di povertà assoluta. Secondo l’ultima rilevazione ISTAT del 2016 peggiorano soprattutto le condizioni delle famiglie con 4 componenti per cui l’incidenza della povertà assoluta è salita al 9,5% e che all’aumentare dei componenti (dai 5 in su) tende ad aumentare ulteriormente, raggiungendo il 17,2%. Va osservato che le famiglie di soli stranieri, mediamente più numerose, tendono a rientrare più facilmente in questa categoria. Sul territorio italiano i profili del disagio sono differenziati. In media, l’incidenza della povertà assoluta è più alta nelle aree metropolitane, dove nel 2015 si registra un aumento rispetto all’anno precedente lungo tutto lo stivale con un’incidenza media del 7,2%. Il Sud Italia conferma sacche di povertà assoluta maggiori, sebbene non vadano trascurate anche le periferie delle grandi città del Nord e del Centro Italia. Questa impietosa fotografia deve far riflettere su alcune problematiche molto serie e sui tratti distintivi della povertà in Italia.

La maggiore incidenza della povertà assoluta tra i minori e le giovani generazioni rischia di minare il potenziale di crescita su cui il benessere di una nazione dovrebbe fondarsi e che vede proprio nelle fasce più giovani della popolazione le categorie che dovrebbero essere più fortemente tutelate al fine di permettere la realizzazione di tutto il loro potenziale a beneficio della collettività. Una società che invecchia senza riuscire a dare un futuro certo alle giovani generazioni, è una società che tristemente sceglie di non avere futuro. Un giudizio negativo sulla bassa performance dell’Italia in tema di povertà e disuguaglianza viene anche dal World Economic Forum che nell’elaborazione dell’Inclusive Development Index ha collocato l’Italia nel 2017 al 27° posto tra le 29 economie avanzate analizzate10. Oltre agli alti livelli di povertà e disuguaglianza, a pesare maggiormente su questa performance del nostro Paese sono l’allarmante livello di disoccupazione, la precarietà del lavoro (con impatto maggiore sulle donne) e di iniquità intergenerazionale che non permette un soddisfacente livello di mobilità sociale.

Se quelli sopra menzionati sono i dati delle statistiche ufficiali, non meno preoccupanti sono i rilievi che emergono dalle indagini campionarie sulla percezione degli italiani rispetto alle loro condizioni economiche di vita. Secondo l’ultima indagine Eurispes, il 48,3% delle famiglie non riesce ad arrivare alla fine del mese e il 44,9% per arrivarvi è costretto a intaccare i propri risparmi. Per un Paese in cui la cultura del risparmio è sempre stata piuttosto radicata, è particolarmente significativo che oggi solo una famiglia su quattro risparmi attivamente. Le rate del mutuo per la casa sono un problema nel 28,5% dei casi, mentre per il 42,1% di chi vive in affitto pagare il canone prefigura seri aggravi. Il 25,6% delle famiglie ha inoltre difficoltà a far fronte alle spese mediche. Emblematico che nell’ultimo anno il 31,9% dei cittadini ha rinunciato alle cure dentistiche a causa dei costi eccessivi, il 23,2% a fisioterapia/ riabilitazione, il 22,6% alla prevenzione e il 17,5% ha sacrificato persino medicine e terapie. Secondo l’indagine Eurispes le prime tre cause per cui si sprofonda in una condizione di povertà sono: la perdita del lavoro (76,7%), una separazione o un divorzio (50,6%), una malattia propria o di un familiare (39,4%).

Nel mondo, sette persone su dieci vivono in Paesi, Italia inclusa, in cui la disuguaglianza è aumentata negli ultimi 30 anni. Secondo le ultime rilevazioni, nel nostro Paese nel 2016 l’1% più ricco era in possesso del 25% della ricchezza nazionale netta, 415 volte quella detenuta dal 20% più povero della popolazione italiana. Da soli, i primi 7 miliardari italiani possedevano più ricchezza del 30% più povero dei nostri connazionali13. L’acuirsi di questo divario tra super ricchi e poveri tanto a livello globale quanto a livello nazionale, evidenzia le falle di un sistema economico che, alimentando l’estremizzarsi delle disuguaglianze all’interno dei Paesi, viene meno ai principi di solidarietà e bene comune che dovrebbero guidare qualsiasi scelta di politica economica, un sistema che infrange quel contratto sociale di progressiva ripartizione dei costi e di equo accesso ai servizi pubblici alla base del buon funzionamento di ogni sana democrazia. Come per la ricchezza, anche per il reddito disponibile pro-capite nazionale quasi la metà dell’incremento (45%) registrato nell’arco di tempo 1988-2011 è fluito verso il top-20% della popolazione, di cui il 29% al top-10%. In particolare, il 10% più ricco della popolazione ha accumulato un incremento di reddito superiore a quello della metà più povera degli italiani.

La sperequazione desta ancor più allarme se ci si sofferma sulla quota di incremento del reddito ricevuta nell’arco degli oltre vent’anni in esame dal 10% più povero dei nostri connazionali: un risicato 1% corrispondente ad appena 3,7 euro pro-capite all’anno (PPP 2005), a fronte di un incremento annuo di circa 365 euro del 10% più ricco.14 Riprendendo le parole di Thomas Piketty, uno dei più autorevoli economisti dei nostri tempi, “a prescindere da quanto possano essere inizialmente giustificate le disuguaglianze di ricchezza, le fortune possono crescere e perpetuarsi oltre ogni possibile giustificazione razionale in termini di utilità sociale”. Nonostante una complessiva crescita economica globale registratasi negli ultimi decenni, le disparità nella distribuzione di ricchezza e reddito danno prova di una crescita che non è stata inclusiva ma che ha beneficiato soltanto un élite al vertice della piramide sociale. L’estremizzarsi della disuguaglianza economica e i livelli di povertà all’interno di un Paese non sono fenomeni tra loro sconnessi. Numerose sono infatti le analisi e le ricerche della società civile, delle agenzie ONU e delle organizzazioni internazionali, tra cui l’OCSE, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, che evidenziano come la disuguaglianza estrema renda più difficile l’uscita dalla povertà di milioni di persone nel mondo, pregiudica la crescita economica e paralizza la mobilità sociale, crea le condizioni per un aumento della criminalità e della corruzione, è all’origine di molti conflitti minando quindi le fondamenta stesse delle società in cui viviamo.

La relazione che intercorre fra le crescenti disuguaglianze, i rischi di crisi e la crescita sostenibile è oggi al centro del lavoro di molti economisti, Nuove evidenze mostrano come economie più sane e robuste si distinguano per gli sforzi di promuovere una crescita più inclusiva. Una recente ricerca condotta dal Fondo Monetario Internazionale ha riscontrato che i Paesi con alti livelli di disuguaglianza hanno prospettive di crescita duratura e sostenibile molto più limitate15. La disuguaglianza estrema può nuocere all’economia, spingendo al ribasso la domanda interna di beni e servizi: l’eccesso di accumulo del reddito nazionale al vertice della piramide distributiva limita drasticamente la capacità di consumo delle fasce più povere e delle classi medie nazionali. Analizzando il corso degli ultimi 30 anni l’OCSE ha constatato che la disuguaglianza di reddito ha avuto un impatto negativo sulla crescita. Tale analisi, riguardante anche 20 Paesi UE, ha rilevato che le disparità di reddito in Italia (profili relativi al periodo 1985-2005) abbiano impattato negativamente il tasso di crescita per circa 6 punti percentuali (nel periodo 1990-2010)16. Vi è poi da considerare che in società fortemente disuguali si acuisce il condizionamento politico, cioè il controllo del potere e della politica da parte di un élite che, occupando i vertici della piramide sociale, possiede tutti i mezzi per influenzare i processi decisionali a proprio vantaggio. Si genera in tal modo un circolo vizioso in cui i più facoltosi influenzano politiche e normative piegandole ai propri interessi, accrescendo le proprie risorse e i propri privilegi, a discapito degli interessi della collettività a partire da quelle fasce di cittadini che si trova in stato di povertà, vulnerabilità ed emarginazione e che spesso non hanno i mezzi per chiedere politiche più eque, pari opportunità e piena realizzazione dei propri diritti. Inoltre la disuguaglianza va contro valori morali fortemente radicati in noi e contro una concezione largamente condivisa di equità: lo schema di distribuzione della ricchezza e del reddito che la gente teoricamente preferisce è molto più equo di quello realmente esistente. Anche in Italia un sondaggio recentemente realizzato da Demopolis per Oxfam evidenzia che per la maggioranza (61%) del campione degli intervistati i livelli di disuguaglianza nel nostro Paese negli ultimi cinque anni sono aumentati, gli ambiti in cui sono più fortemente percepiti sono reddito (73%) e patrimonio (63%) e per ben l’80% degli intervistati le politiche di contrasto alla disuguaglianza in Italia sono prioritarie e urgenti.

Per affrontare alla radice le cause di povertà e disuguaglianza non basta realizzare interventi mirati a dare risposte ai bisogni concreti espressi dalle fasce più vulnerabili della popolazione. Serve anche un cambiamento delle politiche e la promozione di una nuova cultura economica. La crisi della disuguaglianza che il mondo sta sperimentando non è infatti frutto di un destino ineluttabile, ma di scelte politiche che possono essere riorientate partendo da una radicale revisione di alcuni assunti che sono alla base dell’attuale modello economico. In quest’ottica Oxfam promuove un modello di Economia Umana20 in cui, partendo dal presupposto che il mercato da solo non è in grado di rispondere in maniera adeguata ed equa ai bisogni di tutti i cittadini e di rispettare l’ambiente, si richiede un più efficace intervento dei Governi per tutelare i diritti di tutti e per salvaguardare il bene comune.

L’Economia Umana può realizzarsi attraverso: • Governi che si adoperano per arginare l’estrema concentrazione di ricchezza, così da porre fine alla povertà. Può essere realizzato aumentando le imposte sulla ricchezza e sui redditi più alti e rendendo i sistemi fiscali nazionali più progressivi e capaci di maggiore ridistribuzione, in grado di raccogliere in modo più equo risorse da investire in servizi pubblici come sanità e istruzione oltre che in politiche di sostegno al lavoro. • Governi che cooperano, invece di competere in una corsa al ribasso sulle politiche fiscali e sui diritti dei lavoratori. Deve essere posta fine alla dannosa corsa al ribasso in materia fiscale perpetrata da molti Governi per attrarre investimenti di grandi multinazionali e devono essere adottate efficaci misure di contrasto agli abusi fiscali di grandi corporation e ricchi individui per recuperare risorse vitali per i bilanci pubblici. Inoltre, i Governi dovrebbero cooperare per assicurare che in un mercato del lavoro globalizzato la logica del massimo profitto non vada a detrimento dei diritti dei lavoratori e che venga, invece, loro corrisposto un salario dignitoso. • Governi che sostengono modelli di business non orientati alla sola massimizzazione dei profitti, ma attenti al benessere dei propri lavoratori e al contributo che l’azienda porta al bene comune della società. Esistono già modelli imprenditoriali orientati in questa direzione che hanno dimostrato di funzionare.

E’ perciò fondamentale che a queste imprese si dia il giusto sostegno per far in modo che il loro modello diventi mainstream e non sia confinato a mere sperimentazioni di economia sociale. • Governi attenti a garantire pari opportunità di sviluppo a uomini e donne. Questo significa abbattere quelle barriere economiche che oggi non sempre permettono alle donne di realizzarsi al pari degli uomini. Assicurare ovunque nel mondo che le donne godano di pari accesso ai servizi educativi e sanitari. Non permettere che siano le norme sociali a predeterminare il ruolo della donna nella società e riconoscere, ridurre e ridistribuire il lavoro di cura non retribuito. • Governi che incoraggiano l’innovazione tecnologica a condizione che vada a beneficio di tutti. E’ cruciale il ruolo dei Governi nell’assicurare che lo sviluppo tecnologico non persegua esclusivi interessi di mercato (dettati ad esempio dalla necessità di rispondere ai bisogni di consumatori più abbienti disposti a pagare un costo più alto per l’accesso alle tecnologie), ma sia sempre orientato al raggiungimento di un maggior benessere per tutta la società. Anche nelle trasformazioni del mondo del lavoro, è fondamentale che i decisori politici pongano particolare attenzione nel soppesare i benefici e i rischi nel lungo periodo dati da un crescente uso delle tecnologie in sostituzione del lavoro umano. • Governi che promuovono una transizione verso l’uso di energie rinnovabili per il funzionamento della nostra economia. L’attuale modello economico, a partire dalla rivoluzione industriale, si è sviluppato facendo ampio ricorso all’uso di combustibili fossili.

Questo modello è incompatibile con la sostenibilità ambientale ed il benessere della maggioranza della popolazione. Basti pensare alle vittime provocate a livello globale dal cambiamento climatico e dai fenomeni connessi e ai danni subiti dalle comunità più povere e vulnerabili. • Governi che promuovono lo sviluppo guardando ad una molteplicità di indicatori relativi al benessere dei cittadini e non soltanto alla crescita economica misurata attraverso il PIL. E’ necessario infatti poter cogliere l’effettiva distribuzione di redditi e ricchezza all’interno di un Paese e non misurare soltanto la dimensione dell’attività economica complessiva. È altresì fondamentale contabilizzare i costi ambientali così da poter meglio salvaguardare il pianeta per le generazioni future, e integrare quelle attività ad oggi non contemplate nel PIL come ad esempio il lavoro di cura non retribuito che pure è parte fondamentale del funzionamento delle nostre economie. Siamo la generazione che può porre fine alla povertà. Negli ultimi decenni molto progressi sono stati compiuti a livello globale e la povertà è stata dimezzata, eppure c’è ancora molta strada da fare per realizzare quel sogno dell’economista e Premio Nobel Muhammad Yunus di “relegare la povertà nei musei”. Il modello di un’Economia Umana, scardinando i fattori alla base della crescente disuguaglianza nelle nostre economie, vuole contribuire a far sì che quel sogno possa diventare realtà.



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