Davide Rebellin è morto il 30 novembre, a 51 anni, durante un allenamento sulle strade di casa



L’ultimo numero lo aveva attaccato alla maglia lo scorso 16 ottobre. Aveva scelto la Veneto Classic come corsa finale, quella dell’addio, a ben 51 anni, al ciclismo professionistico: 190 chilometri, dal centro di Treviso a Bassano del Grappa. Distanza trasformatasi subito in una lunga passerella per salutare i tifosi: una giornata di grande festa sulle strade di casa sua. «Adesso», si era lasciato andare all’arrivo, quasi sottovoce, «avrò modo e tempo per ripensare ai momenti belli e a quelli difficili che hanno caratterizzato la mia carriera, ma anche per gustarmi l’abbraccio dei miei sostenitori».



Ma di tempo Davide Rebellin – il ciclista professionista più longevo della storia con i suoi trent’anni di carriera, morto investito da un camion il 30 novembre mentre si allenava sulla sua bici – ne ha avuto poco.

Troppo poco. Senz’altro non quello che si era guadagnato dopo una vita trascorsa in sella. Un po’ come le vittorie: ne ha raccolte tante, ben 64, alcune indimenticabili, ma meno di quelle che si sarebbe meritato. Era iniziata nell’agosto del 1992 la sua carriera, subito dopo l’Olimpiade di Barcellona. Ma è il 2004 l’anno passato alla storia. Quando in soli otto giorni vinse una di fila all’altra l’Amstel Gold Race, la Freccia Vallone (conquistata tre volte in tutto) e la Liegi- Bastogne-Liegi.

Nel palmares spiccano anche la Clasica di San Sebastian, il Gp di Francoforte, alcune tappe al Giro d’Italia (fu anche maglia rosa) e alla Vuelta spagnola, la Tirreno-Adriatico e la Parigi-Nizza. Nel 2008 vinse la medaglia d’argento nella prova in linea all’Olimpiade di Pechino, che gli venne poi tolta per la positività al doping. Un caso molto controverso, per il quale era stato assolto dal Tribunale di Padova sette anni dopo: lui aveva sempre rivendicato la propria innocenza. Quella medaglia la sentiva sua. «E potrei riaverla», diceva, «dopo che la giustizia ordinaria mi ha dato ragione, ma sarebbero solo spese economiche che non mi sento di sostenere».

Questo era Rebellin, sempre misurato con le parole, timido. Ma mai schivo. Se n’è andato pedalando come aveva vissuto, ma non c’è giustizia in questo finale perché Davide è stato ucciso. Travolto, dicevamo, dall’autista di un camion, un 62enne tedesco, che non si è  fermato dopo l’impatto. Lasciandolo lì, sull’asfalto, senza vita, a Montebello Vicentino, lungo la strada regionale 11. Accanto c’erano i resti della sua bici, pezzi di carbonio accartocciato a testimonianza della violenza dell’impatto. Solo il fratello Carlo l’ha riconosciuta.

Lui che a Lonigo, paese di origine della famiglia, gestisce il bar Ultima tappa, è arrivato sul posto dopo aver sentito di un incidente che aveva visto coinvolto un ciclista travolto da un mezzo pesante. «Ho provato a telefonargli, ma lui non rispondeva. Ero preoccupato. Quando sono arrivato», ha raccontato Carlo, «il corpo era a terra, coperto. Non me lo facevano vedere. Però c’era la sua bici».

Così le speranze si sono spente. «Dopo il ritiro, non aveva perso la passione per la bicicletta: non riusciva a starle lontano, era il suo grande amore. Era partito presto per il suo solito allenamento: tre o quattro ore di pedalate prima di tornare a casa. Mi aveva chiesto di andare con lui ma, per un imprevisto, ho dovuto rinunciare », ha continuato il fratello. Viveva a Monte Carlo Davide, ma il cordone ombelicale con la provincia di Vicenza non era mai stato tagliato. E anche quando era in visita dalla madre non rinunciava a salire in sella. Non era più un lavoro la bici per Rebellin, ora c’era soltanto amore. Restava un professionista, ma non certo per soldi.

La sua era una passione autentica mai scalfita dalle rinunce, dalla fatica, dalla sofferenza. In trent’anni di carriera ha macinato quasi un milione di chilometri – abbondantemente superati se si contano le attività giovanili – di cui 150 mila in gara. Ecco perché digerire quello che è successo è impossibile.

Le parole più vere le ha scritte di suo pugno, sulla Gazzetta dello Sport, Marco Scarponi, fratello di Michele, altro ciclista fuoriclasse morto il 22 aprile 2017 investito da un furgone. «Si dovrebbe lavorare per rendere la strada uno spazio più democratico, invece nel nostro Paese è della macchina: il pensiero che una persona possa uscire in bicicletta con il rischio di non fare più ritorno a casa è inquietante. È sintomo di un Paese incivile. E si sgomberi il campo da frasi fatte: quello di Davide non è destino, è un omicidio».



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