La vera storia di Giuseppe Misso chi è: Camorra, boss, rapine, o Nasone, Napoli



Lui si chiama Giuseppe Misso, ma all’anagrafe sbagliano e lo chiamano Missi. l’ambiente camorristico lo chiama o Nasone, è stato per moltissimi anni un boss indiscusso della camorra, capo dell’omonimo clan egemone nel rione Sanità, al centro della città partenopea. dal lontano 2007 è diventato a tutti gli effetti un collaboratore di giustizia, ed attualmente e sotto protezione dal 2011. il clan è gestito da lui lo possiamo ricordare per la famosissima rapina Matera banco dei pegni di Napoli di circa 5 miliardi delle vecchie lire, e nello stesso anno in una gioielleria dove portò il frutto di un miliardo.



Negli anni Misso è stato processato anche per la vicenda del Rapido 904 (condannato all’ergastolo in primo grado ma successivamente assolto dal reato di strage).

La guerra coi Giuliano di Forcella

Misso nasce a Napoli nel 1947. I primi passi nel mondo del crimine li percorre con un amico d’infanzia, quel Luigi Giuliano che anni dopo diventerà  il potente boss di Forcella. “Abbiamo cominciato coi furtarelli di auto per poi arrivare alle camere blindate”, dirà poi Misso durante uno dei tanti processi. Ed è proprio con “Lovigino” che arriva il primo arresto, quando i due hanno 16 e 14 anni: vengono sorpresi a rubare, Giuliano viene bloccato subito mentre l’altro viene rintracciato successivamente.

Da allora Misso entra ed esce di galera, fino al 1979, quando, scarcerato, decide di tirarsi fuori da quel mondo e apre un negozio di abbigliamento in via Duomo. Il periodo è quello della guerra tra la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo e la Nuova Famiglia, di cui fa parte anche il gruppo di Giuliano, nel frattempo diventato “il re di Forcella”. La rottura coi Giuliano arriva poco dopo, ed è lo stesso Misso a raccontarla. Gli uomini di Lovigino, spiega, avevano preso a pretendere il pizzo dai commercianti di via Duomo, ferendo anche qualcuno che si era rifiutato. Ma “la goccia che fece traboccare il vaso” fu nel 1983, quando il clan aggredì alcuni militati del Msi e chiuse la sede di Forcella.”Io e i miei amici ci armammo fino ai denti, decisi a tutto – dice Misso, da sempre dichiaratamente di estrema destra – di Forcella conoscevo tutti i vicoli. Sequestrammo in un basso i familiari di Giuliano e li picchiammo. Poi con un gesto simbolico riaprimmo la sede”. “Dopo quell’azione temeraria e plateale tra noi non poteva esserci più pace”.

La nascita del clan Misso alla Sanità

Il clan nasce proprio in quegli anni. Peppe Misso ha sempre rifiutato l’etichetta di camorrista: in uno dei suoi romanzi, l’autobiografico “I leoni di marmo”, ha spiegato di essere diventato un criminale per difendersi dai soprusi e che per questo aveva avuto il sostegno del quartiere. Per gli inquirenti, al contrario, il gruppo che faceva a lui capo è stato uno dei più potenti del centro di Napoli, pienamente inserito nelle dinamiche camorristiche.

Tanto che, una volta fuori dai giochi ‘o Nasone, il clan verrà retto secondo gli inquirenti dai nipoti: Emiliano Zapata Misso, Giuseppe Misso Junior detto ‘o Chiatto e Michelangelo Mazza (tutti diventati collaboratori di giustizia dopo il pentimenti). Nel 2006 la Direzione Investigativa Antimafia indica come cartello dominante quello dei Mazzarella-Misso-Sarno, in contrapposizione all’Alleanza di Secondigliano.

In quei primi anni, però, il gruppo di Misso riesce a tenersi fuori per qualche tempo dagli scontri, e lo fa ritagliandosi un proprio spazio. A differenza degli altri, si specializza: non droga ed estorsioni, settori per il cui controllo si continuano a combattere guerre di camorra anche oggi, ma rapine. Colpi grossi, clamorosi. Come quello miliardario al Banco di Napoli, di cui è ritenuto la mente.

La rapina da 5 miliardi al Monte dei Pegni di Napoli

Nel primo pomeriggio del 3 aprile 1984 una banda di rapinatori che fa capo al gruppo Misso fa irruzione nel Monte dei Pegni del Banco di Napoli, in via San Biagio dei Librai, in pieno centro cittadino; sono sette, forse otto, altri complici sono appostati in motocicletta in strada. I criminali, volto coperto e mitra e pistole in mano, sequestrano una sessantina di dipendenti e fanno razzia di oro e gioielli custoditi nel caveau.

Nella filiale arrivano passando dal tetto, per scappare rifanno lo stesso percorso. Quando tutto finisce, la banda va via con un bottino di 5 miliardi di lire. La notizia fa rapidamente il giro del mondo, è una delle rapine più importanti mai avvenute in Italia: con la rivalutazione il bottino equivale a circa 7milioni e 140mila euro di oggi.

Misso e i rapporti con la mafia siciliana

Il 3 marzo 2015, ascoltato a Firenze durante una udienza del processo contro Totò Riina, accusato di essere il mandante della Strage del Rapido 904, Misso torna a parlare della rapina al Banco dei Pegni. Quando il pm Angela Pietroiusti gli chiede se conoscesse personaggi legati a Cosa Nostra, Misso risponde: “Ho conosciuto Gerlando Alberti Junior perché prese parte alla rapina al Monte dei Pegni a Napoli, insieme a me. Poi c’era Franco Caccamo, che non era un mafioso, e Vito Lo Monaco, che nemmeno era un mafioso, ma soltanto uno che faceva le rapine”.

Alberti era il nipote omonimo del boss della mafia siciliana detto ‘u Paccarè, l’Imperturbabile. “Il mafioso era Gerlando Alberti jr, che era un nemico di Pippo Calò, della mafia vincente, e di conseguenza, se io ero amico di Alberti jr, non sarei mai potuto essere amico di Calò”, continua Misso, che aggiunge raccontando quello che lo stessi Alberti gli avrebbe confidato: era “scappato da Palermo, perché in Sicilia faceva le rapine e non dava i soldi alla mafia, quindi era stato condannato a morte da Cosa nostra”.

A far conoscere i due sarebbero stati Caccamo e Lo Monaco, che avevano già fatto delle rapine con Misso. E lo avrebbero portato proprio da lui “perché avevano bisogno di guadagnare e perché io, all’epoca, ero forse il più importante rapinatore d’Italia”.

L’agguato in autostrada in cui è stata uccisa la moglie di Peppe Misso
Nel 1992 Peppe Misso ‘o Nasone è il capo indiscusso del clan con roccaforte a Largo Donnaregina, nel centro di Napoli. In corso c’è un’altra guerra di camorra: da una parte l’Alleanza di Secondigliano (Mallardo, Contini, Licciardi), dall’altra il cartello formato dai Mazzarella, dai Sarno e, appunto, dai Misso.

Il 14 marzo, intorno alle 18, un commando armato di kalashnikov e fucili da caccia assalta un’automobile sulla bretella autostradale Caserta Sud-Napoli, all’altezza dello svincolo Afragola-Acerra. È una carneficina. Vengono ammazzati Assunta Sarno e Alfonso Galeota, gravemente feriti Giulio Pirozzi e la moglie, Rita Casolaro. La Ford Fiesta sta tornando da Firenze, dove i due uomini sono imputati, insieme al capoclan, per la strage del treno 904.

La donna uccisa, oltre che sorella dei boss capoclan dei Sarno, è la moglie di Peppe Misso. Quell’agguato, hanno raccontato i pentiti, era stato ordinato dal gotha dell’Alleanza di Secondigliano per piegare il clan della Sanità che non aveva voluto schierarsi al fianco dei Licciardi.

“In quell’occasione – dice Luigi Giuliano, anche lui oggi collaboratore di giustizia – fu violato il codice d’onore, anche se nella camorra, nella mafia, non esiste alcun codice d’onore. È una leggenda, non è vero niente, quello è tutt’altro che un codice d’onore, è un codice d’infamia”. “Io ritenni che si era superato ogni limite – prosegue Lovigino – e mi scontrai con l’intera cupola di Secondigliano, compresi i Lo Russo”.

La decisione di Misso di diventare collaboratore di giustizia

Nel 2007 Misso sceglie di diventare collaboratore di giustizia. Dal carcere scrive una lettera al procuratore Paolo Mancuso, che viene girata al procuratore Giovandomenico Lepore. Viene trasferito dal carcere di Spoleto a quello di Rebibbia e più volte incontra Franco Roberti, capo del pool anticamorra, e i pm Giuseppe Narducci, Barbara Sargenti e Sergio Amato. Le sue prime dichiarazioni, però, vengono considerate insufficienti, forse addirittura parte di una strategia, e il pentimento viene “congelato”, salvo poi diventare collaborazione piena alcuni mesi dopo.



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