“Offesa all’Islam,” dicono. Così il tribunale di Rabat ha spiegato la condanna a 30 mesi di carcere per Ibtissame ‘Betty’ Lachgar, femminista tosta e psicologa clinica, 50 anni, famosa per le sue battaglie sui diritti umani. Hanno beccato Betty il mese scorso dopo che aveva postato una foto con una maglietta: sopra c’era scritto “Allah” in arabo, seguito da “è lesbica.” Sì, avete letto bene.
La notizia? L’ha data il suo avvocato, Mohamed Khattab, che tanto per cambiare ha già annunciato ricorso. Lo stesso tribunale, nei giorni scorsi, aveva pure negato la libertà provvisoria richiesta dalla difesa, citando motivi di salute. Niente da fare: 30 mesi dentro e una multa da 50.000 dirham (circa 5.000 euro, che poi non è proprio spiccioli). In tribunale, Betty ha spiegato che quella frase sulla maglietta era solo uno slogan femminista, roba contro sessismo e violenze sulle donne. Altro che insulto all’Islam, secondo lei.
La situazione è questa: Rabat non molla la presa su Lachgar, attivista storica del Movimento Alternativo per le Libertà Individuali (Mali). È accusata di blasfemia, sta dentro dal 13 agosto e, per non farsi mancare niente, sta anche male. L’udienza? Rimandata alla settimana prossima, perché in aula l’atmosfera era già bella tesa tra controlli e perquisizioni a tappeto.
Betty è apparsa visibilmente provata in tribunale: jellaba, velo leggero e una benda sulla spalla sinistra. Pare che abbia una lesione seria, roba che richiede un’operazione urgente, altrimenti rischia addirittura l’amputazione del braccio. I suoi avvocati martellano sul fatto che la libertà le servirebbe almeno per curarsi, ma l’accusa non ne vuole sapere – dicono che bisogna rispettare le regole e bla bla bla.
Nel frattempo, lei rimane in isolamento, senza neanche l’ora d’aria. Gli avvocati parlano di “attacco alla dignità” e chiedono almeno un’assistenza sanitaria decente. Ma per ora, silenzio di tomba. E intanto, in Marocco, la libertà di espressione pare restare un optional, almeno quando c’è di mezzo la religione.



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