​​


Difesi una mamma single per un furto insignificante. 25 anni dopo, suo figlio è entrato nel mio ufficio



Era il mio primo anno da praticante. Una causa piccola, insignificante per molti. Una donna era stata arrestata per aver rubato una penna da 5 euro.



Disse che era per il compleanno di suo figlio.

Non chiese pietà, solo di essere ascoltata.

Convinsi il giudice a lasciarla andare.

Quel giorno finì lì, almeno così credevo.


Venticinque anni dopo, avevo il mio studio legale. Un team, clienti importanti, giornate sempre piene. Ero diventato ciò che un tempo sognavo di essere.

Un lunedì mattina dovevo fare un colloquio. Curriculum promettente: laureato con lode, esperienza nella Procura e volontariato legale.

Entrò, stringendomi la mano con decisione.

“È un onore essere qui, avvocato Manfredi,” disse. “Seguo il suo lavoro da quando ero bambino.”

C’era qualcosa nei suoi occhi. Una determinazione gentile, ma anche una nota familiare, come se lo conoscessi da sempre.

“Chiamami Luca,” risposi. “Hai un ottimo curriculum. Ma dimmi: perché vuoi lavorare qui? Potresti guadagnare tre volte tanto in uno studio privato.”

Sorrise, più piano. “Mia madre mi ha insegnato a scegliere ciò che è giusto, non ciò che è comodo. Voglio lavorare in un posto che crede ancora in questo.”

E fu lì che mi colpì.

La penna.

“Scusa,” dissi. “Tua madre… ti ha mai raccontato di una penna blu?”

Il suo volto si rilassò. Nessuna sorpresa, solo una specie di dolce riconoscimento.

“Sì,” rispose piano. “Ogni anno, al mio compleanno. Diceva che un avvocato le aveva cambiato la vita. Che l’aveva guardata davvero, mentre tutti la ignoravano.”

Mi mancò il fiato. Quella donna… Rosa. Tremava in tribunale. Non cercava scuse, solo rispetto.

“Come sta?” chiesi.

“È morta quattro anni fa. Cancro al pancreas. Ma è rimasta fiera fino alla fine. Diceva che lei le aveva dato una seconda possibilità. Quella penna? Me la regalò quando compii sei anni. Ce l’ho ancora.”

Rimanemmo in silenzio. Due vite incrociate di nuovo, in un punto che nessuno avrebbe mai potuto prevedere.

“Voglio lavorare qui,” disse, “per restituire quello che mia madre ha ricevuto.”

L’assunsi all’istante.


Qualche mese dopo, portò un caso sulla mia scrivania. Uno sfratto. Una mamma single in ritardo con l’affitto di due settimane.

“Vorrei occuparmene pro bono,” disse.

Lessi il nome sul fascicolo. Mi si gelò il sangue.

Sofia Manfredi.

Mia nipote.

Figlia di mio fratello, dalla seconda moglie. Non parlavamo da anni per questioni familiari mai risolte. Non sapevo nulla della sua situazione.

La guardai. “Conosci questa persona?”

“No. Ma nessuno dovrebbe perdere la casa per un ritardo.”

Annuii. “Occupatene.”

La difese con tenacia. Usò articoli che nemmeno ricordavo. Parlò con forza, rispetto e compassione.

E vinse.

Sofia poté restare.

Quella sera le scrissi. Parlammo per ore. Pianti. Rammarico. Una pace che non sapevo di desiderare.

E tutto grazie a quel ragazzo. A una penna blu.


Settimane dopo, bussò alla mia porta.

“Ho qualcosa per lei,” disse, porgendomi una scatolina.

Dentro, la penna. La stessa. Plastica blu sbiadita. Etichetta scolorita.

“Credo che debba stare qui,” disse.

Ora è in una teca, all’ingresso dello studio.

Sotto c’è una targa:

“Questa penna ha cambiato due vite. Magari potrà cambiarne altre.”


La vita è strana. A volte basta poco.

Una scelta.

Uno sguardo.

Un gesto piccolo che vibra nel tempo, fino a toccare persone e momenti che non avresti mai immaginato.

Quel giorno, tanti anni fa, stavo per non prendere quel caso. Ero stanco, frustrato. Ma ho alzato gli occhi. L’ho vista.

E ora… so che ne è valsa la pena.

Ogni scelta conta.

Ogni persona merita di essere vista.

E a volte, è il gesto più semplice a lasciare l’eco più profonda.



Add comment