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Il trionfo di Donald Trump, l’analisi sorprendente: “Ha saputo imporre la pace grazie al suo carattere”



Negli ultimi giorni, il contesto in Gaza è mutato drasticamente. Solo una settimana fa, i palestinesi affrontavano una crisi devastante, con decine di morti al giorno a causa di bombardamenti e carestia. In Tel Aviv, il governo israeliano annunciava l’intenzione di annettere la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, predisponendo deportazioni per i gazawi.



Nel frattempo, la Flotilla si preparava a essere bloccata dalle forze israeliane in acque internazionali, mentre le piazze d’Occidente si riempivano di manifestanti che chiedevano ai governi di intervenire per fermare la violenza.

Tuttavia, il panorama è cambiato repentinamente. Sebbene la tregua attuale non debba essere confusa con una vera pace — considerando che il Medio Oriente è teatro di conflitti da millenni — c’è speranza che questa situazione possa evolvere in qualcosa di più stabile e duraturo. Perché ciò avvenga, chi detiene il potere deve dimostrare maggiore creatività e pragmatismo rispetto alle tifoserie che si contrappongono nell’opinione pubblica, entrambe caratterizzate da un settarismo simile.

Da un lato ci sono coloro che affermano che “Israele è sempre stato e sempre sarà così”, ignorando le differenze tra i vari leader, come Netanyahu e Rabin, quest’ultimo assassinato da un sostenitore di Netanyahu per aver firmato accordi di pace con Arafat. Dall’altro lato, ci sono quelli che sostengono che “i palestinesi sono sempre stati e sempre saranno quelli del 7 ottobre.”

Un approccio alternativo al fanatismo opposto è quello adottato da Donald Trump, noto per la sua natura controversa. Tuttavia, ha il merito di non essere ideologico e di non operare secondo pregiudizi. La sua visione è priva di moralismi e non si basa su un concetto di “imperi del Bene” in guerra contro gli “assi del Male”.

Se è necessario trattare con Hamas, si deve procedere. Lo stesso vale per gli Houthi, l’Iran, e anche con leader come Putin e Xi. È tempo di abbandonare l’idea di “paci giuste”, che non hanno mai avuto riscontro nella storia, e concentrarsi su “paci possibili”, che sono inevitabilmente “sporche”. Queste ultime nascono da compromessi tra interessi divergenti e richiedono una diplomazia che, per sua natura, deve scontentare un po’ tutte le parti coinvolte, cercando un punto di incontro realistico che tenga conto dei rapporti di forza esistenti.

Questo principio è applicabile anche a Netanyahu, il quale dovrà accettare un accordo siglato con la partecipazione di Trump, Erdogan, al Thani e al Sisi, che potrebbe vedere Hamas trasformato in una sorta di poliziotto per Gaza. Ciò comporterebbe la necessità di abbandonare le proposte di annessione, deportazione e conflitto perpetuo, per tornare a un voto con risultati incerti.

Per i palestinesi, la sfida è trovare una leadership credibile che possa guidarli verso il riconoscimento dello Stato, una prospettiva vagamente accennata nel patto di Trump. Si potrebbe anche ipotizzare che Hamas, o qualsiasi altro gruppo che ne prenderà il posto, possa decidere di rinunciare alla lotta armata e riconoscere Israele, seguendo l’esempio dell’OLP: il passaggio da terroristi a statisti può avvenire rapidamente, come dimostrato dal caso di al Jolani in Siria.

La situazione in Ucraina e Russia presenta dinamiche simili. Gli stati membri dell’Unione Europea continuano a inseguire una “pace giusta”, aspirando a una sconfitta militare della Russia, mentre Kiev continua a perdere uomini e territori. Anche in questo contesto, l’unica alternativa alla guerra è una “pace sporca”.



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