Alcuni collaboratori di Limes, la rivista di geopolitica diretta da Lucio Caracciolo, hanno rassegnato le dimissioni in segno di protesta contro una presunta linea editoriale filorussa della pubblicazione. In un video, il direttore Caracciolo fornisce alla Gruber una breve lezione di giornalismo.
Le frasi di Lucio Caracciolo direttore di @limesonline hanno un suono, a prima lettura, impeccabile: analizzare, ascoltare tutte le voci, non “schierarsi”, restare aperti a punti di vista diversi. È il lessico classico dell’analista che rivendica metodo, freddezza, distanza dai… pic.twitter.com/fssgNSbQPv
— Fabio Lazza (@Fabopolis) December 20, 2025
Le affermazioni di Lucio Caracciolo, direttore di Limes, appaiono, a prima lettura, impeccabili: analizzare, ascoltare tutte le prospettive, non “schierarsi”, mantenere un’apertura mentale verso punti di vista divergenti.
Si tratta del lessico tradizionale dell’analista che rivendica un approccio metodico, distaccato dalle dinamiche tribali del dibattito pubblico.
Tuttavia, nel 2025, tale lessico rischia di fungere più da strumento retorico che da metodo di conoscenza. Il punto cruciale risiede nella credibilità del dispositivo analitico proposto, che, per molti, si è progressivamente eroso.
“Ascoltare tutte le voci” rappresenta un principio valido se inteso come ampliamento del campione informativo, comprensione delle motivazioni, degli interessi e delle percezioni, e valutazione della razionalità interna di ciascun attore. Diventa, tuttavia, un principio dannoso se degenera in una simmetria artificiale, come se ogni voce possedesse identico peso epistemico e identica affidabilità fattuale.
In un conflitto contemporaneo, soprattutto quando una parte investe in propaganda e guerra informativa, “tutte le voci” non sono equivalenti: alcune costituiscono analisi, altre operazioni.
Un approccio giornalistico rigoroso non si limita ad “ascoltare”: filtra, verifica, attribuisce e, soprattutto, gerarchizza le informazioni.
In assenza di tale processo, l’apertura mentale si trasforma in “neutralità performativa”, che finisce per premiare chi mente con maggiore efficacia, non chi argomenta con maggiore rigore. Anche l’affermazione “non possiamo metterci da una parte contro l’altra” appare ragionevole, ma introduce un’ambiguità significativa: confonde l’imparzialità con l’equidistanza. L’imparzialità è un dovere metodologico (applicazione degli stessi criteri di prova, medesima severità nel fact-checking, medesima disponibilità a correggersi).
L’equidistanza, invece, rappresenta una scelta politica o narrativa (distribuzione equa di colpe e ragioni a prescindere dai fatti).
Quando un conflitto presenta un punto d’innesco, una catena di responsabilità e una documentazione pubblica ampia, l’equidistanza non costituisce prudenza: rappresenta un modo elegante di evitare conclusioni scomode.
In definitiva, si è assistito ad una crescente difficoltà nel condurre discussioni costruttive con individui che non condividono già le proprie opinioni. Questo fenomeno è in parte attribuibile alla polarizzazione dell’ecosistema informativo, all’incentivazione dell’indignazione e alla tendenza a privilegiare l’appartenenza ideologica rispetto all’analisi basata su evidenze.
Tuttavia, è fondamentale riconoscere che la complessità del dialogo non deriva esclusivamente dall’intolleranza altrui. Essa è, in parte, conseguenza di anni di “frame” ripetuti, ambiguità persistenti e di una tendenza a equiparare ricostruzioni fondate a narrazioni interessate.
Quando analisti di rilievo promuovono l’idea che “comprendere” equivalga a “giustificare” o che “mantenere una posizione imparziale” equivalga a “astenersi dal giudizio”, si genera inevitabilmente una diffidenza nel pubblico. Quest’ultimo percepisce l’analisi non come un chiarimento, bensì come una relativizzazione dei fatti.
Il tema della credibilità persa assume, in questo contesto, una rilevanza cruciale. La credibilità non si misura con dichiarazioni di principio, quali “ascolto tutte le prospettive”, ma con la trasparenza del metodo di analisi. È essenziale chiarire quali fonti vengono privilegiate, quali standard probatori vengono applicati, come vengono affrontati gli errori e come si distingue tra punto di vista e affermazione fattuale. Inoltre, è fondamentale segnalare la propaganda senza ricorrere a espressioni generiche come “una voce lontana”.
La credibilità si costruisce attraverso criteri visibili e una rigorosa disciplina di verifica, non attraverso una semplice postura. In altre parole, il pluralismo è auspicabile, ma la neutralità di comodo è da evitare. L’apertura alle diverse voci è importante, ma l’equivalenza tra tutte le voci è fuorviante.
Infine, è imperativo che un’analisi credibile abbia il coraggio di evidenziare le asimmetrie che caratterizzano la realtà, sia in termini di responsabilità, sia in termini di fatti, intenzioni e condotte. Questo non significa “schierarsi”, ma piuttosto rispettare la fondamentale distinzione tra comprendere un conflitto e equiparare la verità alla narrazione.



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