La mia collega, Bethany, sosteneva di essere “ipersensibile” agli odori e aveva imposto un divieto assoluto all’uso di profumi o deodoranti. Lavoravamo in un piccolo ufficio senza finestre, presso un’agenzia di graphic design ad Atlanta, in Georgia. Bethany aveva trasformato il nostro piano in una rigorosa “zona senza fragranze”, sostenendo che anche il più lieve odore le provocasse forti emicranie e problemi respiratori.
Le sue richieste erano severe e non negoziabili, accompagnate da frequenti promemoria severi e occasionali rimproveri pubblici. Avevo accettato a malincuore, rinunciando alla mia crema corpo preferita e usando un detersivo per il bucato privo di profumo. L’aria in ufficio era sterile, quasi clinica, completamente priva di qualsiasi nota gradevole.
Un pomeriggio, durante una riunione con un cliente, Bethany smise improvvisamente di parlare e cominciò ad annusare l’aria intorno a me con insistenza. Socchiuse gli occhi, spinse teatralmente la sedia all’indietro e si coprì il volto con la mano, accusandomi di indossare un profumo e chiedendo conto dei “prodotti tossici” a cui l’avrei esposta di proposito.
Ero sinceramente confuso e profondamente infastidito dalla scena pubblica. Non avevo usato alcun prodotto profumato quella mattina; avevo seguito scrupolosamente tutte le sue regole. Con calma insistetti sul fatto che non avevo indossato nulla. Tutti i presenti osservavano il confronto in silenzio, evidentemente abituati al dramma che spesso Bethany portava con sé.
Difesi la mia posizione: i miei vestiti erano lavati con detersivo inodore, e anche i prodotti per i capelli erano etichettati come “senza profumo”. Lei però insisteva, dicendo che l’odore era forte e immediato. Infine indicò le mie mani, che avevo appena lavato dopo aver usato il bagno comune. Il “profumo” era semplicemente quello del sapone per le mani.
L’aroma, che a malapena avevo percepito, era un leggero odore agrumato proveniente dal sapone industriale fornito dalla direzione dell’edificio. Era un prodotto obbligatorio, pensato per l’igiene, non per vanità. Spiegai che avevo semplicemente lavato le mani, e che il lieve odore residuo era inevitabile e necessario.
Mi rifiutai di smettere di lavarmi le mani, appellandomi a principi base di igiene e salute pubblica, soprattutto durante il picco della stagione influenzale. Le dissi con fermezza che avrei volentieri usato una crema idratante senza profumo, ma non avrei rinunciato al lavaggio delle mani. Il confronto sfociò in una denuncia formale da parte di Bethany al nostro supervisore, il signor Ellis, che sospirò rassegnato, consapevole della battaglia inevitabile con le risorse umane.
La situazione divenne surreale. Il signor Ellis fu costretto a convocare una riunione di reparto per sollecitare un “compromesso reciproco”, evitando però accuratamente di dire a Bethany che l’igiene di base era obbligatoria. Io mantenni la mia posizione, spiegando che avrei rispettato tutte le regole tranne quella che comprometteva la sanità. Bethany, nel frattempo, cominciò a indossare una mascherina chirurgica quando mi stava vicino, insinuando in modo teatrale che rappresentassi un rischio per la salute.
L’assurdità del caso spinse infine a una verifica ufficiale da parte della ditta di manutenzione dell’edificio e, successivamente, a un reclamo formale da parte mia per molestie sul luogo di lavoro. Il reparto HR, deciso a risolvere una volta per tutte il problema “olfattivo”, assunse un’igienista industriale indipendente per analizzare la qualità dell’aria nel nostro piccolo ufficio.
L’igienista, la dottoressa Anya Sharma, trascorse tre giorni installando sensori e monitorando l’ambiente. I primi risultati confermarono che la qualità dell’aria era ottima, ma i sensori registravano picchi intermittenti di una strana sostanza organica concentrata ogni volta che Bethany era alla sua scrivania. Non si trattava né di profumo né di allergene ambientale.
L’indagine proseguì per un’altra settimana, concentrandosi esclusivamente sull’area di lavoro di Bethany, i suoi oggetti personali e le sue abitudini. La dottoressa Sharma, infine, convocò me e il signor Ellis, con un’espressione visibilmente colpita dalla sua scoperta finale. Rivelò che le reazioni di Bethany non erano causate da agenti esterni.
Scoprimmo che Bethany non soffriva affatto di ipersensibilità chimica, ma era gravemente allergica a un tipo comune di tessuto presente nei mobili datati. Le sue emicranie e difficoltà respiratorie erano reazioni fisiche autentiche, ma il colpevole era un composto organico non chimico che si sprigionava dalla vecchia sedia imbottita, rivestita in velluto polveroso, alla quale era affezionata.
Quella sedia, presente in ufficio da decenni, conteneva un’imbottitura in crine di cavallo ormai degradata. La polvere e la forfora derivanti da questo materiale organico erano la vera causa delle sue reazioni. Il composto imitava i sintomi della sensibilità chimica, ma era in realtà un allergene biologico.
L’associazione tra il sapone per le mani e i sintomi fu finalmente chiarita: la sedia di Bethany si trovava proprio sotto una bocchetta dell’aria. Quando qualcuno passava vicino alla sua scrivania o apriva la porta del bagno, la corrente d’aria sollevava le particelle di crine, scatenando la sua reazione allergica. Scambiava il sapone per la causa solo perché il flusso d’aria e i sintomi coincisero.
Il signor Ellis ordinò immediatamente la rimozione della sedia e la sostituzione con un modello moderno e ipoallergenico. I sintomi scomparvero all’istante e l’atmosfera in ufficio cambiò radicalmente. Bethany smise di indossare la mascherina e tornò se stessa, senza più l’ossessione per gli odori.
La vicenda portò benefici a più livelli. Bethany mi chiese scusa, profondamente imbarazzata per gli anni di diagnosi errate e accuse infondate. Io, a mia volta, mi scusai per la rabbia che avevo provato, comprendendo che la sua durezza derivava da una sofferenza reale e non da malizia. Imparammo entrambi a comunicare con maggiore empatia.
Il signor Ellis, colpito dalla professionalità della dottoressa Sharma, la assunse come prima “Responsabile per il Benessere e la Sicurezza Ambientale” dell’azienda, con l’incarico di valutare gli impatti ambientali nascosti sulla salute dei dipendenti. Io fui promosso a coordinare l’implementazione delle nuove politiche interne, trasformando un conflitto in un nuovo standard aziendale all’avanguardia.



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