La mia figliastra di 23 anni è stata licenziata e si è trasferita da noi. Mio marito è l’unico che lavora, e le spese sono schizzate alle stelle. «Trovati un lavoro e contribuisci!» le ho detto. «Io c’ero prima di te», ha risposto con un sorrisetto.
Quella stessa notte mi sono svegliata con una strana sensazione e ho visto la figliastra in camera mia. Teneva in mano un sacco della spazzatura pieno di lattine di bibite vuote e incarti di snack.
«Che fai?» ho chiesto, ancora assonnata.
Sembrava sorpresa ma ha risposto subito: «Pulisco. Non riuscivo a dormire e il disordine in soggiorno mi dava fastidio».
Non le ho creduto del tutto. Ma ero troppo stanca per discutere. Ho annuito e mi sono rigirata. Non lo sapevo allora, ma quella notte è stata l’inizio di qualcosa che nessuno si aspettava.
Si chiama Talia. È figlia di mio marito da un matrimonio precedente. L’ho conosciuta a 15 anni. Era una ragazzina dolce, silenziosa, sempre a scarabocchiare quaderni e stare per conto suo. Ma col tempo qualcosa è cambiato. Sua madre è morta quando ne aveva venti, e l’ha presa male. Da allora salta tra lavori, appartamenti e divani di amici.
Tre settimane fa si è presentata alla nostra porta con due valigie e guance bagnate di lacrime. Mio marito non ha chiesto niente: ha aperto e l’ha fatta entrare. Lo capisco. È sua figlia. Ma io avevo le mie frustrazioni.
Non eravamo ricchi. Mi avevano tagliato le ore al lavoro, e la spesa costava di più che mai. Arrangiavamo a stento. E arriva Talia, sdraiata sul divano tutto il giorno, a ordinare cibo da asporto con gli ultimi risparmi, a guardare reality con il volume alto mentre io pulivo dopo tutti.
All’inizio ho provato a essere gentile. «Ti serve aiuto col curriculum?» le ho offerto.
Ha sbadigliato e detto: «Ci penso io».
Sono passati giorni. Poi una settimana. Due. Niente lavoro. Niente impegno. E quando l’ho rifatto presente, ecco la frase: «Io c’ero prima di te», come se fosse padrona di casa.
Il peggio? Mio marito, Marco, le dava sempre il beneficio del dubbio. «Sta passando un brutto periodo», diceva.
Annuivo, ma dentro fumavo. Un brutto periodo è una cosa. Vivere sulle spalle di chi arranca? Un’altra.
Tornando a quella notte.
La mattina dopo ho trovato il sacco della spazzatura che portava: era alla porta, pronto per l’uscita. Pieno di incarti di cibo spazzatura. Mi sono sentita un po’ in colpa per aver pensato il peggio.
Comunque, quella sera tornando dal lavoro, il lavello era pieno di piatti e il soggiorno un disastro. Fine delle pulizie notturne.
Due giorni dopo sono rientrata presto e ho sentito Talia al telefono.
«Sì, sto da loro per ora… no, non gliel’ho detto dell colloquio… non voglio storciarlo».
Mi sono fermata in corridoio e ho ascoltato. Non il mio momento più nobile, lo ammetto. Ma dopo tutto, ero curiosa.
Ha continuato: «Se lo prendo, me ne vado subito. Non reggo più i suoi giudizi ogni volta che mangio cereali».
Ho sospirato piano e mi sono allontanata prima che mi vedesse.
Sono passati giorni. Era ancora lì, disoccupata per quel che vedevo. Ma aveva iniziato a lavare i piatti più spesso. A pulire il bagno senza che glielo chiedessi. Pensavo magari stesse provando.
Poi una sera è esploso tutto.
Io e Marco eravamo al tavolo a fare i conti. Non mi ero accorta che Talia fosse in stanza finché non ha detto: «La bolletta della luce la copro io il prossimo mese».
Marco ha alzato lo sguardo. «Cosa?».
«Ho trovato lavoro», ha detto. «Inizio lunedì».
Ho sbattuto le palpebre. «Che lavoro?».
«Receptionist in uno studio dentistico. A tempo pieno. Niente di che, ma stabile».
Marco si è alzato e l’ha abbracciata. Era al settimo cielo.
Io le ho detto un «Congratulazioni» gentile con un sorriso. Magari le cose giravano.
E per un po’ sì.
Si svegliava presto, vestita bene, usciva ogni mattina. Tornava con storie di pazienti e colleghi. Pagava parte delle bollette come promesso. Comprava persino la spesa qualche volta.
Ma un giorno è rincasata strana. Non triste. Non arrabbiata. Solo… strana.
«Com’è andata al lavoro?» ho chiesto.
Ha esitato. «Bene».
L’ho lasciata correre, ma il giorno dopo non è andata. Ha detto di stare male.
Poi un altro giorno libero. Un altro ancora.
La settimana dopo l’ho affrontata. «Che succede?».
Ha confessato: «Ho mollato».
«Cosa? Perché?».
«Ho sbagliato. Due ritardi in una settimana. Il capo ha detto un’altra volta e sono fuori. Ho panico e me ne sono andata. Pensavo di trovarne un altro presto».
Marco non era in casa, e non gliel’ho detto subito. Me l’ha implorato. «Ne trovo un altro. Ti prego. Dammi una settimana».
Non avrei dovuto accettare. Ma l’ho fatto.
Non ha trovato niente.
Una settimana diventata due. Un mese. E piano piano è tornata alle vecchie abitudini.
Ma stavolta non ho lasciato fermentare. L’ho affrontata diretta.
«Talia, ho pagato io la tua bolletta del telefono il mese scorso. Marco fa straordinari. Devi aiutare. Non ce la facciamo più».
Ha alzato gli occhi al cielo. «Non capisci cosa sto passando».
«Invece sì. Tutti abbiamo problemi. Ma non ci fermiamo per questo».
E lì è scattata. «Non ti ho chiesto aiuto. Ti sei solo sposata in questa famiglia. Non sei mia mamma».
È stato un pugno. Non ho detto niente. Sono uscita dalla stanza.
La tensione in casa era palpabile per giorni.
Poi una mattina mi sono svegliata e Talia era sparita. Niente biglietto. Valigie scomparse. Marco già al lavoro. L’ho chiamato. Non sapeva niente.
Abbiamo preoccupati, certo. Ma una parte di me era arrabbiata. Arrabbiata che se ne fosse andata senza dire nulla. Che avessimo provato tanto per niente se non atteggiamento.
Non l’abbiamo sentita per tre settimane.
Poi dal nulla mi ha chiamata. Non Marco. Me.
«Sono in un rifugio», ha detto piano. «Mi sono finiti i soldi. L’amica mi ha buttata fuori. Non sapevo chi altro chiamare».
Ho respirato profondo. «Vuoi tornare?».
Lunga pausa. «No», ha detto. «A meno che non cambino le cose. Devo… sistemarmi da sola. Mi candido a un programma qui. Aiutano con lavoro e casa. Volevo solo dirti scusa».
Sono rimasta zitta un attimo. «Grazie per aver chiamato».
Basta. Non abbiamo parlato molto dopo. Ma ho controllato quel programma, e settimane dopo ho visto il suo nome in una newsletter locale. Ha trovato lavoro tramite loro: amministrazione in un centro comunitario. Niente di glamour, ma stabile.
Sei mesi dopo.
Un giorno ha bussato alla porta.
Sembrava più sana. Sicura. Con una scatola di pasticcini e una lettera.
Ha abbracciato prima Marco. Poi si è voltata verso di me: «Vi devo tanto a entrambi. Ma soprattutto a te».
Mi ha dato la lettera. L’ho letta dopo, sola. Ammetteva tutto: risentimento, paura, colpa. Come mi incolpava di sostituire sua mamma, quando in realtà aveva solo paura di legare con qualcuno.
Finiva con: «Grazie di non aver mollato me. Anche quando ho mollato me stessa».
Ho pianto. Lo ammetto.
Quella sera ci siamo seduti noi tre e abbiamo parlato da adulti. Per la prima volta, niente voci alte, difese. Solo comprensione.
Talia si è trasferita di nuovo settimane dopo: stavolta in un monolocale suo. Viene ancora. Porta dolci. Offre di aiutare con le riparazioni.
Non è perfetta. Nessuno lo è. Ma ci prova.
E sapete? Basta così.
Guardando indietro, capisco i miei errori. Ero impaziente. A volte dura. Ma avevo paura anch’io: paura di essere data per scontata, di essere l’estranea in una casa che non mi sembrava mai del tutto mia.
Ma siamo cresciuti tutti. Ognuno.
Ed ecco il colpo di scena che ha chiuso il cerchio.
Pochi mesi dopo che Talia ha preso casa sua, mi ha chiamata: aveva qualcosa da mostrarmi.
Ci siamo viste in un caffè locale, e ha tirato fuori un volantino stampato.
«Gruppo di supporto per giovani adulti in uscita da dipendenze tossiche».
Lo gestiva lei. Volontaria ogni giovedì sera.
«Alcuni ragazzi mi ricordano… beh, me», ha detto con un sorriso timido.
Ero sbalordita. «Aiuti la gente?».
Ha annuito. «Ho pensato, se ce l’ho fatta io… magari posso aiutare altri».
Lì ho capito che ne valeva la pena. Lo stress. Le liti. La preoccupazione. Perché quella ragazza che mi aveva detto «Io c’ero prima di te» aveva trovato il suo posto nel mondo: aiutando gli altri a trovare il loro.
Quindi se stai passando qualcosa di simile, ecco cosa dico:
Non scrivere le persone troppo presto. Metti confini, sì. Rendile responsabili. Ma non smettere di sperare che crescano. A volte devono toccare il loro fondo prima di trovare la motivazione per risalire.
E se sei tu quello che lotta: sappi questo. Non è mai troppo tardi per cambiare. Mai.



Add comment