Al liceo, io e la mia migliore amica facemmo un patto: una volta cresciute e sposate, avremmo chiamato la nostra prima figlia con lo stesso nome, “Serenity”.
Gli anni passarono, ci sposammo entrambe. Lei ebbe una bambina e, fedele alla promessa, la chiamò Serenity. Io ebbi un maschio e scelsi “Sebastian”, mantenendo almeno l’iniziale. Contavamo entrambe di avere un altro figlio, sperando in una femmina per me.
La vita, però, prese una sua strada. Io e mio marito ci lasciammo, e quel sogno adolescenziale si fece più lontano, anche se non impossibile. Mentre cercavo di ricostruire la mia vita, lui cominciò a frequentare una ragazza – niente di serio, nessun impegno formale. E indovina? Rimase incinta, ebbe una bambina e… le misero nome Serenity.
Lui ebbe addirittura il coraggio di dirmelo, sostenendo che, dato che avremmo dovuto usarlo noi, aveva deciso di “onorare il patto”. Ma quel patto non l’avevo fatto con lui. Gli avevo solo accennato al nome nel caso avessi avuto una figlia.
Non era un nome comune, non era un nome qualunque: l’avevamo creato io e la mia amica, ispirandoci ai pomeriggi sereni trascorsi sotto l’albero di tamarindo, durante i pranzi alla nostra scuola femminile. Era nostro, intimo, legato a un ricordo puro.
E lui se ne è appropriato. Ancora oggi, la rabbia non è passata. Ho imparato una lezione: certe cose, certe promesse, certe idee del cuore, ora le tengo per me. Non le condivido più con nessuno.



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