All’inizio era qualcosa di piccolo.
Piccoli segnali—compiti stropicciati, merende dimenticate, lo sguardo perso fuori dalla finestra durante la cena, come se fosse altrove. Pensavo fosse solo una fase. I bambini si distraggono, si lasciano prendere dall’immaginazione.
Poi, però, smise del tutto di voler andare a scuola. Piangeva al mattino, si lamentava di mal di pancia, anche se il medico non trovava nulla di anomalo.
Fu allora che la preoccupazione prese il sopravvento.
Scrissi un’e-mail alla sua maestra, la signora Halston, immaginando che mi avrebbe parlato di semplice inquietudine primaverile o, al massimo, di qualche piccolo problema con un compagno di classe. Invece mi chiese di incontrarci di persona—«Niente di urgente», scrisse, «ma credo sia importante parlarne».
Mi recai a scuola con un nodo allo stomaco, aspettandomi il peggio.
La maestra mi accolse con un sorriso gentile, ma nei suoi occhi c’era un velo di tristezza difficile da interpretare. Ci sedemmo nella sua piccola e accogliente aula, impregnata dell’odore di pastelli a cera e matite appena temperate. Lei mi fece cenno di accomodarmi; le mie mani, nervose, giocherellavano in grembo.
«Grazie per essere venuta», iniziò con voce calma ma carica di pensieri non detti. «Negli ultimi tempi ho notato qualcosa che credo possa spiegare il comportamento di Lily a scuola. Non voglio affrettare conclusioni, ma penso sia giusto parlarne.»
Il mio cuore accelerò. Temevo che fosse vittima di bullismo o che ci fosse qualche problema scolastico di cui non mi ero accorta.
«Lily è più silenziosa del solito», proseguì, «spesso sembra distratta durante le lezioni e disegna molto. So che ama perdersi nei suoi pensieri, ma quello che mi ha colpito è la natura dei suoi disegni.»
Sentii una stretta allo stomaco. Lily ha sempre avuto la passione per il disegno, ma il tono della maestra mi mise in allerta.
«Posso mostrartene uno? Forse sarà più chiaro.»
Annuii, trattenendo il respiro. La maestra aprì una cartellina e ne estrasse un foglio. Appena vidi l’immagine, sentii il battito accelerare.
Era il disegno di una grande figura scura, minacciosa, che incombeva su una piccola figura—Lily. I suoi soliti colori vivaci erano spariti, sostituiti da tonalità fredde e spente. La figura scura era tratteggiata con linee dure, occhi vuoti e inquietanti. La piccola figura, rannicchiata, si copriva il volto con le mani.
C’era una sofferenza evidente in quel disegno.
La maestra, notando la mia espressione, aggiunse: «Credo che Lily stia cercando di esprimere qualcosa che non riesce a dire. A volte i bambini comunicano le proprie emozioni attraverso l’arte, anche quando non ne comprendono pienamente il significato.»
Ero confusa, preoccupata. «Pensi che possa essere qualcosa che succede a casa? Abbiamo avuto qualche momento difficile, ma nulla che pensassi potesse colpirla così.»
Lei esitò. «Non lo so. Ma qualunque cosa sia, la sta segnando. Forse bisognerebbe parlarle, con dolcezza, e aiutarla a sentirsi al sicuro.»
Quella sera, dopo cena, mi sedetti accanto a Lily. Era sul divano, le ginocchia al petto, lo sguardo basso. Sembrava lontana.
«Tesoro», dissi piano, «so che c’è qualcosa che ti preoccupa. Puoi dirmelo. Qualunque cosa sia, io sono qui.»
All’inizio tacque, giocherellando con la maglietta. Poi, con voce quasi impercettibile, disse: «Non mi piacciono i sogni…»
Il mio cuore si fermò. «Che sogni?»
«Quelli brutti. Con l’uomo. Lui è sempre lì, mi guarda. E non riesco a farlo andare via.»
Un brivido mi percorse la schiena. «Che uomo?»
«È molto grande, sta sempre nell’angolo della mia stanza. Ha gli occhi scuri. E quando chiudo gli occhi, c’è ancora. Non voglio che torni.»
Cercai di rassicurarla: «Amore, sono solo sogni, non possono farti del male. Ma hai fatto bene a dirmelo. Lo affronteremo insieme.»
Quella notte passai ore a informarmi su incubi infantili, disturbi del sonno e possibili traumi. Nulla sembrava spiegare fino in fondo quella paura.
La mattina seguente, in soffitta, trovai un vecchio diario di mia madre. Leggendolo, scoprii che anche lei, da bambina, era tormentata nei sogni da una figura inquietante, descritta in modo sorprendentemente simile a quello di Lily.
Fu come ricevere uno schiaffo emotivo: non era una paura casuale. Era un’ombra tramandata, radicata nella nostra storia familiare.
Quel pomeriggio dissi a Lily: «Non sei sola in questo. Questa paura è nella nostra famiglia da tanto, ma non dobbiamo portarla per sempre. La affronteremo insieme.»
Con l’aiuto della terapia, esercizi di respirazione e piccoli rituali rassicuranti prima di dormire, l’uomo nei sogni di Lily svanì. La paura perse forza, e lei tornò a dormire serena.
Ho imparato che, a volte, le nostre paure non nascono dal nulla. Sono parte di un quadro più grande. Capirlo può fare la differenza.
Se questa storia ti ha colpito, condividila con chi potrebbe averne bisogno. Sapere di non essere soli è spesso il primo passo verso la guarigione.



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