​​


Mia madre mi chiese di pagare l’affitto mentre la sua nuova famiglia viveva a scrocco: la mia incredibile storia



Mi chiamo Rosaria, e fino a due settimane fa pensavo che la mia vita fosse esattamente come doveva essere. Avevo un lavoro stabile in una delle aziende leader del paese, un appartamento in affitto nel centro di Milano e una relazione che, all’epoca, credevo avesse un futuro.



Deren era con me da tre anni, da quando ci siamo conosciuti all’ultimo anno di università. Ci siamo trasferiti insieme a Milano, ma in realtà ero stata io a firmare il contratto per l’appartamento spazioso in cui lui si era sistemato, dopo che avevo ottenuto quello che consideravo il lavoro dei miei sogni.

Non posso dire che non ci siano mai stati problemi. Qualsiasi relazione attraversa momenti difficili. Ma credevo che la nostra fosse solida. Facevamo progetti, sognavamo viaggi, parlavamo delle nostre carriere. Sapevo che la passione col tempo lascia spazio all’abitudine, ma pensavo fosse naturale. Mi fidavo di lui.

Poi arrivò quella sera. Festeggiavamo il compleanno di Geltrude, una delle mie amiche più care. Avevamo prenotato una sala privata in un bar elegante del centro. C’erano musica, risate, scatti di foto. Mi sentivo leggera, complice il vino e l’atmosfera. Finché, cercando il bagno, passai vicino al guardaroba e li vidi.

Alla luce fioca di una lampada d’angolo, un uomo stava baciando una donna. Non ci avrei fatto caso, se non fosse stato per quel colpo al cuore, quel presentimento che mi costrinse a fermarmi. Lui si voltò leggermente e il mondo mi crollò addosso. Era Deren. Abbracciava una sconosciuta, una bionda alta con un abito scuro. Lei rideva mentre lui le accarezzava la schiena.

Rimasi immobile, sussurrando senza accorgermene: “Stai scherzando… stai scherzando…”
Non ricordo quando alzai la voce, ma la gente si voltò, la musica si spense.
Deren si ritrasse di scatto, terrorizzato.
“Rosaria, non è come sembra.”
“Non osare,” lo interruppi, la voce tremante di rabbia.
“Non dire che non è quello che sembra, perché lo è. È un tradimento.”

Fece un passo verso di me, ma mi ritrassi.
“Ti prego,” disse alzando le mani, “andiamo a casa, ne parliamo…”
Risi. Un riso vuoto, che mi sorprese per quanto suonasse distante.
“A casa? Intendi dire il mio appartamento? Dove vivi solo perché sono stata così stupida da credere che mi amassi?”
Lui rimase in silenzio.

“Domani non voglio più vedere le tue cose lì.”
Mi voltai e uscii dal bar. Mi chiamò, ma non mi fermai.
Geltrude, notando la mia espressione, mi seguì e mi fermò un taxi. Non disse quasi nulla.

Quella notte non piansi. Le lacrime arrivarono dopo, quando entrai in casa e vidi le sue cose: i suoi vestiti nell’armadio, la tazza in cucina, il suo libro sul comodino. Le lacrime sgorgarono senza controllo.

Le due settimane successive le vissi in modalità automatica. Restavo in ufficio fino a tardi, accettavo progetti extra, pur di non tornare in quell’appartamento ormai vuoto. Non mi mancava Deren, ma la sensazione di avere qualcosa di mio, qualcosa di reale.

Una sera, seduta sul balcone con un bicchiere di vino, guardando le luci di Milano, capii una cosa: non avevo nulla, lì. Il lavoro sì, ma niente radici, niente famiglia, niente casa.

Una casa però ce l’avevo. Quella che mi aveva lasciato mio padre. Quando morì, avevo 19 anni. Mia madre mi aveva chiamata nel cuore della notte. Mio padre mi lasciò la casa nel testamento, perché avessi sempre un posto dove tornare. Ma non ci ero mai più tornata. Prima l’università, poi il lavoro. E poi, mia madre si era risposata con un uomo di nome Carlos, con due figli adolescenti.

Avevo accettato quel nuovo assetto per amore di mia madre. Ma ogni volta che tornavo, non mi sentivo più a casa. Agnes e Leon, i figli di Carlos, erano educati ma freddi. C’era un muro tra noi. Persino la mia vecchia stanza non era più mia.

Quella sera a Milano, scorrendo il telefono ignorando i messaggi di Deren, capii: era il momento di tornare a casa.

La mia azienda aveva una filiale vicino a Bergamo. Il giorno dopo chiesi un incontro al mio capo, Gaston.

“Ho bisogno di un trasferimento,” dissi.
“Sei una delle nostre migliori analiste,” rispose. “Non voglio perderti. Vedrò cosa posso fare.”

Tre giorni dopo, il trasferimento fu approvato. Lo stipendio ridotto leggermente, ma il costo della vita era più basso. Accettai.

Chiamai mia madre.
“Sto tornando a casa,” le dissi.
“Oh… quando?”
“Tra due settimane. Così puoi preparare la mia stanza.”

Silenzio. Poi:
“Agnes usa quella stanza da anni.”

“Beh, dovrà spostarsi. È la mia casa.”

Il tono di mamma mi mise in allerta, ma scacciai il dubbio.
Feci i bagagli, vendetti i mobili inutili. Un’amica organizzò una festa d’addio.
Poi partii.

La casa era come la ricordavo, ma più spenta. I giardini incolti. Mamma sembrava invecchiata. Carlos, freddo e distante. Agnes mi accolse con sarcasmo. “Quindi resti davvero?” disse. E da lì, iniziarono i problemi.

Quella casa, mia per diritto, era diventata campo di battaglia. Agnes lamentava di aver dovuto lasciare la “sua” stanza. Carlos parlava di “abitudini compromesse”. Mamma rimaneva in silenzio, o peggio: dalla loro parte.

Quando, dopo settimane, mi chiesero di pagare un affitto nella mia casa, capii che il limite era stato superato.
“Questa casa è mia,” dissi.
“Da ora in poi, se volete restare, ognuno pagherà 500 euro al mese.”

Un silenzio glaciale calò.
“Non puoi essere seria,” sibilò Agnes.
“Lo sono.”

Carlos mi accusò di ingratitudine. Mamma, ancora una volta, non mi difese.
E così se ne andarono. Trovarono un altro appartamento. Presero ciò che era loro. Non cercai di fermarli. Trattenni solo l’orologio a pendolo di papà. Quello non lo avrebbero portato via.

Quando rimasero solo le pareti spoglie, provai pace. Era vuota, sì. Ma era casa mia.

Comprai mobili nuovi, sistemai ogni stanza, riempii le pareti con ricordi veri: foto con papà, la laurea, amici di Milano.
Quando Megan venne a trovarmi, mi chiese:
“Ti dispiace?”
“Mi manca mia madre,” risposi. “Avrei voluto andasse diversamente. Ma non mi pento di aver difeso me stessa.”

Oggi vivo da sola. Ma per la prima volta da anni non mi sento sola.
Questa è la mia casa. E l’ho riconquistata.

Papà sarebbe stato fiero.



Add comment