Non credo che dimenticherò mai quel suono.
Non era il classico “ding” di una notifica. Era una vibrazione breve, doppia, come se il telefono avesse fretta di essere letto.
Il problema è che non era il mio telefono.
Ero seduta sul divano, avvolta in una coperta, con un bicchiere di vino rosso in mano. Fuori pioveva, e Marco, il mio compagno, era sotto la doccia. Avevo acceso la TV senza guardarla davvero, più per riempire il silenzio che per interesse. Il suo telefono, appoggiato sul tavolo, si illuminò.
Per istinto abbassai lo sguardo. Non volevo essere invadente, ma il nome sullo schermo mi colpì subito: Anna – Lavoro.
Sotto, l’anteprima del messaggio: “Non smetto di pensarti. Anche adesso.” Seguita da un’emoji che lasciava poco spazio ai fraintendimenti.
Sentii il cuore accelerare. Avrei potuto ignorarlo, lasciare il telefono dov’era, e forse la mia vita sarebbe rimasta uguale. Ma la mano si mosse da sola. Sbloccai lo schermo: conoscevo il suo codice, anche se non l’avevo mai usato.
La chat era lì, aperta, come un libro proibito. Scorrii verso l’alto.
C’erano settimane di messaggi: battute private, foto, frasi sussurrate attraverso lo schermo. Si confidavano tutto: cosa avevano mangiato, cosa avevano fatto, commenti sulle persone al lavoro… e su di me. “Oggi è nervosa, meno male che ci sei tu,” aveva scritto una sera in cui io stavo male. E lei rispondeva: “Vorrei poterti abbracciare adesso.”
Ogni riga era una pugnalata. Non solo per il tradimento fisico che intuivo, ma per l’intimità emotiva che avevano costruito alle mie spalle. Le sue “riunioni dell’ultimo minuto”, le cene di lavoro finite alle undici, i week-end in cui mi diceva che doveva “recuperare delle scadenze”… ogni pezzo si incastrava in un puzzle che, alla fine, mostrava un’unica immagine: io ero stata tenuta fuori da una parte enorme della sua vita.
Appoggiai il telefono sul tavolo e rimasi lì, immobile. Sentivo l’acqua in bagno scorrere, il rumore del doccino contro le piastrelle. Mi diedi pochi minuti per decidere: urlare o aspettare. Una parte di me voleva affrontarlo sul momento, un’altra voleva vederlo mentire, studiare la sua reazione.
Quando uscì, con i capelli bagnati e l’asciugamano in vita, mi sorrise. Quel sorriso mi fece male più di tutto il resto.
“Che c’è?” chiese, notando la mia espressione.
“Ti ha scritto Anna,” dissi, senza distogliere lo sguardo.
Un secondo di silenzio. Troppo lungo.
“Anna… del lavoro?” tentò, come se ci fosse davvero bisogno di precisare.
“Quella che non smette di pensarti anche adesso. Sì, quella.”
Non negò.
“Non volevo che lo scoprissi così,” disse, abbassando lo sguardo.
Risi, ma era un suono vuoto. “Ah no? E come volevi? Con una cena a tre? O un biglietto d’auguri?”
“Non è come pensi.”
“Oh, illuminami, allora. Perché io penso che tu mi abbia mentito per mesi, mentre io ti coprivo, difendevo, credevo a ogni tua parola.”
Lui restò in silenzio. Poi: “Con lei… è diverso.”
Quella frase mi colpì più di qualsiasi ammissione.
“Diverso da cosa? Da me?” chiesi.
Non rispose. E in quel silenzio c’era già tutto.
Non piansi. Non gliene diedi la soddisfazione.
Mi alzai, indicai la camera: “Prendi le tue cose.” Gli diedi cinque minuti. Non urlai, non lo insultai, non chiesi “perché”. Quel “perché” sarebbe stato un regalo che non meritava, un appiglio per inventarsi una storia in cui apparire meno colpevole.
Lui fece come gli dissi. Mentre si vestiva, il telefono vibrò ancora. Un altro messaggio di lei: “Allora? Le hai detto qualcosa?”
Lui lo vide e mi guardò. Io sorrisi appena: “Ora sì.”
Se ne andò senza voltarsi.
Quando la porta si chiuse, restai sul divano, con il bicchiere ancora in mano. Aprii di nuovo la chat. All’ultimo messaggio suo, c’era scritto: “Non preoccuparti, presto sarà tutto più semplice. Lei non sospetta nulla.”
Mi misi a ridere. Si sbagliava. Io avevo sempre sospettato.
Ma il vero tradimento, capii in quel momento, non era il suo. Era il mio, verso me stessa: avevo ignorato ogni segnale pur di non vedere la verità.
E questa, so per certo, sarà l’ultima volta che lo farò.



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