Il caso dell’assassinio dell’ex presidente del parlamento ucraino Andriy Parubiy ha sollevato tensioni politiche e nuove accuse contro la Russia. Il sospettato, Mikhail Szelnikov, 52 anni, residente a Leopoli, ha ammesso la propria responsabilità, dichiarando che l’omicidio sarebbe stato dettato da motivi personali. Parallelamente, le autorità ucraine insistono nel sostenere la pista di un coinvolgimento di Mosca, aprendo scenari che intrecciano vendette private e geopolitica.
Il delitto è avvenuto sabato scorso a Leopoli, dove Parubiy, figura politica filo-occidentale, è stato colpito a morte. Poche ore dopo l’accaduto, la polizia locale ha fermato il sospettato, descritto come un uomo senza un’occupazione stabile, che al momento dell’agguato indossava i panni di un rider della Glovo. Gli investigatori hanno precisato che non aveva mai svolto realmente quel mestiere.
Di fronte ai giornalisti, Szelnikov ha confessato l’omicidio, pronunciando parole che hanno immediatamente fatto il giro dei media: “Sì, sono stato io a ucciderlo, era vicino a me. Questa è la mia vendetta personale contro le autorità ucraine”. L’uomo ha aggiunto di voler ricevere una condanna rapida per essere poi consegnato alle autorità russe nell’ambito di uno scambio di prigionieri di guerra. “Voglio cercare il corpo di mio figlio, reclutato nell’esercito di Zelensky e disperso a Bakhmut nel 2023”, ha spiegato.
Il sospettato ha anche respinto l’ipotesi di essere stato costretto a compiere l’omicidio dai servizi segreti, specificando che Parubiy era semplicemente il suo vicino di casa. “Se fossi stato a Vinnitsya avrei ucciso Petya (Poroshenko)”, ha dichiarato, citando l’ex presidente ucraino.
Le autorità ucraine, tuttavia, ritengono che dietro l’attacco possa esserci lo zampino della Russia. Il capo della polizia di Kiev, Ivan Vyhivskyi, ha affermato: “Non si è trattato di un crimine comune, abbiamo verificato che è stato preparato con cura. C’è il coinvolgimento russo e i responsabili saranno giudicati dalla legge”.
Sulla stessa linea anche Vadym Onyshchenko, responsabile dell’ufficio di Leopoli del servizio di sicurezza interno (Sbu), che ha sottolineato: “Ci sono gli indizi di un crimine su commissione e abbiamo informazioni operative che indicano un possibile coinvolgimento dei servizi speciali russi”. Tuttavia, Onyshchenko ha ammesso che al momento non sono state fornite prove concrete a sostegno di questa tesi.
Il quotidiano online locale Vysokyi Zamok ha riportato che il sospettato avrebbe avuto contatti con agenti russi e che avrebbe accettato di eliminare Parubiy in cambio della restituzione delle spoglie del figlio morto al fronte. Un’indiscrezione che rafforza la convinzione, diffusa tra molti funzionari ucraini, che il Cremlino non esiti a colpire avversari interni ed esterni come forma di intimidazione politica.
Il clima rimane incandescente, con accuse reciproche e versioni contrastanti. Da un lato, la confessione di Szelnikov sembra indicare un gesto legato al dolore personale per la perdita del figlio; dall’altro, le autorità ucraine continuano a leggere l’assassinio come un tassello della strategia di destabilizzazione russa.
Intanto, sui media nazionali e internazionali circola l’immagine dell’uomo arrestato: una fotografia che lo ritrae di spalle, a torso nudo, scortato da due agenti. La scelta di non diffondere per ora ulteriori dettagli ufficiali alimenta ulteriormente il dibattito su una vicenda che rischia di avere conseguenze politiche rilevanti.
L’uccisione di Andriy Parubiy, già leader parlamentare e simbolo della svolta filo-europea dell’Ucraina, si inserisce infatti in un contesto di guerra ibrida in cui ogni atto di violenza assume una valenza politica. Per le autorità ucraine, la convinzione resta una: “La Russia uccide per intimidire”.



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