di Roberto Vannacci da Facebook
Nel dibattito sul direttore d’orchestra Valery Gergiev, accusato di vicinanza al Cremlino, emergono posizioni contrapposte che rivelano un clima in cui cultura, politica e identità nazionale si intrecciano in modo esplosivo. Il caso, esploso con l’invito a un concerto alla Reggia di Caserta da parte della Regione Campania, ha sollevato critiche feroci da esponenti della “sinistra” e del progressismo, tra cui l’eurodeputata del Pd, Pina Picierno, che ha definito Gergiev parte della “casta di sostenitori di Putin” e “complice di crimini di guerra”.
A difendere il maestro è intervenuto Roberto Vannacci, eurodeputato della Lega, che ha parlato di una campagna basata su “censura”, “pensiero unico mascherato da democrazia” e “razzismo culturale”, denunciando una “gogna mediatica” nei confronti di un artista “trattato come criminale di guerra solo perché russo” ().
Secondo Vannacci, si tratta di “ipocrisia del progressismo”, perché la sinistra, che si definisce paladina di diritti e libertà, in realtà “epura chi non la pensa come loro”. In un passaggio particolarmente incisivo, ha affermato: “Parliamo di un musicista che ha dedicato tutta la sua vita alla cultura e, semplicemente perché è russo, mancherebbe delle ‘qualità’ politicamente accettabili che l’Occidente richiede”. E prosegue: “Si torna a parlare di censura… ma questa volta il caso è più emblematico e grottesco” ().
Vannacci accusa l’Occidente di applicare un “razzismo culturale travestito da antifascismo” e suggerisce che la vicenda rappresenti un “precedente pericoloso per la libertà artistica”. Paragona la vicenda a un’autentica “inquistione della sinistra”, che “impone un esame di conformità ideologica” anche in ambito artistico.
Inoltre critica la stampa progressista che “celebra il dialogo interculturale, ma elimina chiunque non segua i suoi dogmi ideologici”. E aggiunge: “È necessario non solo eccellere nel campo dell’arte, ma anche passare il dovuto esame di conformità ideologica. Un artista non ha più la libertà di ‘creare bellezza’, ma deve imparare a ottemperare ai dogmi centrali propugnati dalla stampa progressista” ().
L’eurodeputato fa inoltre riferimento alla “vedova di Navalny”, che sui social ha definito Gergiev “criminale” e “complice”. Per Vannacci, si è giunti a un punto in cui un semplice artista viene bollato come tali “con la facilità con cui si ordina un caffè al bar”.
Critico nei confronti anche dell’Unione Europea, che avrebbe “avvisato” il presidente De Luca, invitandolo a non dare spazio a “artisti che sostengono ad oltranza Putin”, anche se lo stesso De Luca ha difeso il concerto parlando di “dialogo culturale”.
Il centro della polemica verte sulla libertà: Vannacci sottolinea la “totale mancanza di senso critico”, lamentandosi che nessuno si ponga domande su cosa significhi escludere un artista perché non conforme a opinioni politiche. E ammonisce che questo apre le porte a un “regime di dittatura culturale” in cui “ogni artista, ogni intellettuale… sa di dover camminare sulle uova per evitare la scomunica mediatica”.
In questo contesto, si inserisce la denuncia di chi vede un’ingerenza politica nella cultura: la sinistra, secondo Vannacci, “si riempie la bocca di parole come diversità, inclusione… tuttavia applica una delle esclusioni più spietate verso chi non si conforma”.
Da qui nasce la sua conclusione: “Mentre predica la tolleranza, mostra invece un’intolleranza totale”. Un’accusa durissima, che mette in discussione la coerenza di un fronte che si dichiara paladino delle libertà, ma agirebbe invece in modo censorio e selettivo.
Il dibattito solleva molte domande: è legittimo escludere un artista in base alla nazionalità? È accettabile chiedere una dichiarazione politica come prerequisito per accedere a spazi culturali? E, soprattutto, dove si traccia la linea tra responsabilità personale e identità collettiva?
Mentre la vicenda continua a far discutere, resta da vedere se la pressione mediatica e politica lascerà il segno nella libertà di espressione artistica futura. Che questo caso, definito da Vannacci “emblematico”, segni davvero una deriva autoritaria nel tentativo di difendere la democrazia? O se invece rappresenti una risposta legittima di una società democratica che rifiuta simboli vicini ai regimi autoritari?
Resta il fatto che la cultura, come ogni spazio umano e simbolico, può trasformarsi sia in un terreno di dialogo, sia in un’arena di scontro, a seconda delle regole che la società decide di imporvi. E il caso Gergiev rimane, a tutti gli effetti, un banco di prova per capire fino a che punto la democrazia culturale possa reggere la sfida dell’ideologia.
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