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Dario Argento: chi è, età, carriera

Dario Argento è nato a Roma il 7 settembre del 1940, figlio di Salvatore Argento, un produttore cinematografico romano di origini siciliane e di Elda Luxardo, una fotografa di moda brasiliana di origini italiane. Dario Argento è un cineasta noto in tutto il mondo, in particolar modo in Francia e negli Stati Uniti. E’ soprannominato il Maestro del brivido perché ha dedicato maggior parte della sua produzione al cinema horror e thriller. Tra i suoi lavori noti la Trilogia degli animali e la trilogia de Le tre madri.



In silenzio che vale più di mille parole. E quello che Dario Argento ha scelto per onorare la memoria della ex compagna, e attrice di tanti suoi film, oltre che madre di sua figlia Asia, Daria Nicolodi, scomparsa all’improvviso pochi giorni fa.

Invece di tante parole, il regista ha preferito ricordarla con una foto pubblicata sul suo profilo Instagram di loro due insieme, ai tempi in cui erano la coppia regina dei film del terrore italiani, da Profondo rosso a Suspiria.

Come dire, ci sono sentimenti che non si possono esprimere. Argento, nonostante gli 80 anni compiuti è ancora in piena attività. Poco tempo ha ricevuto un premio prestigioso, PUlivo d’oro alla carriera al Festival del Cinema Europeo di Lecce. In questa occasione (di poco precedente alla scomparsa della Nicolodi), ha parlato con i giornalisti della sua vita intrecciata alla sua carriera, da come è nato il suo amore per il cinema da ragazzo, gli esordi in Francia a cui deve la sua fama, i grandi incontri con Bernardo Bertolucci, Sergio Leone e Ennio Morricone e l’amore per la figura femminile, ereditata dalla mamma pittrice.

Argento, partiamo dall’inizio: come è nato il suo amore per il cinema? V «E nato in Francia. Da ragazzo sono andato a studiare a Parigi e la Cinémathèque Frangaise, dove trascorrevo tutti i miei pomeriggi, è stata fondamentale per me: vedevo film di ogni genere, muti, americani degli anni ’40, della Nouvelle Vague. E sono stati proprio i francesi i primi a scoprirmi, quando i critici italiani ancora consideravano il mio cinema commerciale.

Lo stesso trattamento riservato ad Alfred Hitchcock». Quindi deve la sua fama ai francesi. «In Francia L’uccello dalle piume di cristallo è stato da subito un successo e poi da lì ha cominciato a dilagare, in Germania, in Inghilterra, in America e infine in Italia. Ad oggi i miei film sono ancora più conosciuti anche per via dell’approccio generale al cinema che è cambiato, perché lo spettatore stesso è divenuto una sorta di critico». Si è sempre avvalso di grandi collaborazioni per le colonne sonore, da Ennio Morricone a Bill Wyman.

Come sceglie la musica dei suoi film? «A volte le scelgo prima, a seconda del racconto, altre invece alla fine. Mi viene suggerita dall’atmosfera e dallo stile del film. Ho variato parecchio con la musica: da Keith Emerson ai Goblin, che ho scoperto io stesso e con me hanno fatto il loro primo lavoro in Profondo Rosso. Avevano tutti 21/22 anni, erano appena usciti dal conservatorio.

Con Ennio Morricone, invece, ho realizzato ben cinque film. L’ho conosciuto a casa di Sergio Leone e poi era amico di mio padre, produttore cinematografico. Fu lui a insistere perché collaborassimo da subito, dai miei esordi. Gran parte dei pezzi musicali di L’uccello dalle piume di cristallo sono improvvisati, Ennio suonava la tromba. Gli bastava avere davanti una scena del film e lui improvvisava…» Altro suo tratto distintivo sono le ambientazioni delle sue pellicole.

Come sceglie le location? «Non amo fare i sopralluoghi, se non mentalmente. Ho un libro con vie e piazze, che consente di creare nella mia mente una città immaginaria fatta di particolari architettonici di differenti città, in cui un balcone di Torino dà su una piazza di Bologna, una strada di Roma porta ad Asti. Come faceva Michelangelo Antonioni, che ho adorato e a cui spesso ho reso omaggio». Nei suoi film spesso dominano la scena i personaggi femminili, come nelle indimenticabili interpretazioni di Daria Nicolodi. Come mai? «Questa scelta viene dal mio amore per la figura femminile.

È un’eredità che mi ha lasciato mia madre, era una fotografa specializzata nei ritratti e nelle figure femminili. Ho passato l’infanzia e l’adolescenza ad osservare il suo lavoro, le luci che cadevano sui corpi di quelle donne. Ho preso ispirazione da questo. Ho lavorato con tante attrici bravissime, Daria, Jessica Harper, Jennifer Connelly e anche con mia figlia Asia, con cui sul set mi sono trovato magnificamente».

Che ricordi personali conserva dei giorni in cui lavorava con Bernardo Bertolucci e Sergio Leone alla sceneggiatura di C ’era una volta il West? «Ci riunivamo a casa di Sergio Leone, a Roma, in una stanza piccolissima, forse per concentrarci meglio. Iniziavamo con i nostri discorsi sul cinema in generale e poi ci mettevamo a lavorare. All’indomani non ci vedevamo. Io e Bertolucci scrivevamo e il giorno dopo tornavamo a casa di Leone, che ci dava V le sue opinioni su quanto prodotto. E stato un lavoro laborioso, anche perché c’erano tanti personaggi diversi. La protagonista era una donna e Leone era convinto che era meglio affidarsi a giovani cinefili, come eravamo io e Bernardo, per descrivere la psicologia femminile e non a sceneggiatori tradizionali.

Scelse noi anche se avrebbe potuto avere i migliori sceneggiatori al mondo. Credo che però gli abbiamo restituito qualcosa». Curiosità: è vero che nei suoi film le mani dell’assassino, quando vengono inquadrate nel dettaglio, sono sempre le sue? «Sì, tutto è cominciato in maniera casuale con L’uccello dalle piume di cristallo. Avevo selezionato una comparsa, ma non andava bene, gli mostrai come fare, ho preso il coltello e ho colpito ed è andato bene subito il primo ciak.

Per il secondo film, Il gatto a nove code, mio padre mi disse che ero andato così bene che non dovevo prendere una comparsa. E così ho fatto in tutti i film seguenti». V E molto differente lavorare per la Tv, rispetto al cinema? «Non vedo tanta differenza se penso alla serie Tv Masters of Horror, di cui ho firmato due episodi. Forse nelle serie il racconto deve avere un filo narrativo più semplice e concreto che nella trama di un film. Insomma: occorre essere meno psicopatici».



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