Chi è Daniel Lee, fidanzato Roberto Bolle: hanno 9 anni di differenza



Pochi mesi fa erano stati paparazzati a a Venezia, ma questa estate sono stati visti ancora insieme, stiamo parlando di Roberto Bolle e il fidanzato, Una gita romantica sul mare al largo della Costiera Amalfitana su uno yacht a largo della bellissima. Le fotografie esclusive sono state pubblicate sul nuovo numero di ‘Chi’ in edicola.



Per l’étoile e lo stilista, coccole e tenerezze a bordo di uno yacht. Il settimanale racconta che Bolle e Lee non sono soli. Con loro un gruppo di amici che li ha recuperati con il gommone a Praiano per una minicrociera di tre giorni tra Capri, la baia di Nerano, Positano e Li Galli. I due sono stati prima da soli in una villa sul mare, poi in barca con un gruppo affiatato, almeno a giudicare dalla naturalezza con cui si scambiano abbracci e carezze davanti agli altri. Le effusioni sono più espliciti quando lo yacht è ancorato a largo, dove i paparazzi li hanno immortalati mentre si fanno dolsi effusioni.

Ma chi è il fidanzato di Roberto Bolle? Il ‘mistero’ era stato svelato dal sempre informatissimo Dagospia. “Svelato il mistero dell’amante di Roberto Bolle: è Daniel Lee, lanciatissimo direttore creativo della griffe Bottega Veneta. Un ‘macho-cool’ che taglia e cuce e che da almeno un anno è stregato dalle piroette di Robertino”, si legge. Daniel Lee è nato a Bradford il 17 gennaio 1984, dunque con Bolle ci sono 9 anni di differenza.

Daniel Lee è originario di Bradford e ha 36 anni, nasce infatti nel gennaio del 1984. Attualmente è direttore creativo del brand Bottega Veneta, brand italiano specializzato in accessori di lusso e prodotti in pelle. I suoi studi si svolgono presso la scuola di moda Central Saint Martins di Londra e il salto di qualità arriva proprio nel 2018 quando è stato chiamato dal brand di lusso per ricoprire il ruolo di direttore creativo.

 

Da qui la sua carriera di designer sarà in continua ascesa diventando uno dei nomi più attesi durante le sfilate. Nel 2019 ha vinto il premio come Designer dell’anno ai British Fashion Awards grazie al lavoro effettuato con Bottega Veneta, denominato brand dell’anno.

Seguire la linea, lenire il dolore, mettersi i cerotti sulle dita, guardarsi allo specchio e ritrovare un’immagine di sé imperfetta e scoordinata, lontanissima dall’ideale al quale tutti sembrano aspirare. C’è un momento, però, in cui la sofferenza consumata alla sbarra si dissolve come per magia: è l’istante in cui il sipario si alza e quel sogno che è la danza si sprigiona in un arcobaleno foderato di gioia e bellezza.

È questo il messaggio più importante di Danzeremo ancora insieme, il cortometraggio realizzato da MAD Entertainment in collaborazione con Vanity Fair e ispirato alla figura di Roberto Bolle che, «leggero come l’aria», suggerisce all’umanità di tenersi pronta per quando il palco si riaccenderà. «Ho pensato a tutte le difficoltà del diventare un ballerino e alle difficoltà che noi tutti stiamo vivendo in questo periodo», spiega l’ideatore del corto Francesco Filippini, che ha scelto di avvalersi della Slam Poetry, una poesia scritta di pancia e narrata a tre voci, per esprimere «il lavoro duro che si deve fare per uscire dalle avversità». Insieme alla musica composta da Dario Sansone, leader dei Foja oltre che regista e sceneggiatore, Filippini insiste su un tratto comune alla danza e a qualsiasi forma d’arte: l’affanno generale dell’uomo che riesce a prendere aria e torna, finalmente, a respirare.

Roberto Bolle ricorda molte cose: «Il sorriso di mio padre che apriva la porta di casa con un’aria di festa. Il treno che presi da Vercelli per Milano che non avevo mai visto per l’audizione alla Scala. La magia del Natale con la preparazione che precedeva la gioia: una metafora di tutta la mia vita». Intorno alle stanze nelle quali ha danzato, questo ballerino di provincia elevato al ruolo di divinità pagana ha visto girare molte cose e ora, a qualche mese dai 46 anni indossati in aperto spregio all’anagrafe, si accorge che non tutto, tra un passo e l’altro, è sempre andato a tempo di musica: «So di aver rinunciato all’infanzia, all’adolescenza e alla giovinezza e sono anche consapevole che quei periodi non torneranno più. Sono stato un soldato. Uno sempre in marcia. Ma non sono uno di quei soldati che ha scritto dal fronte lettere colme di rimpianto o nostalgia. Il mio destino me lo sono scelto. Al mio futuro sono andato incontro».

Come si sceglie un destino? «Con lucidità, tenacia e determinazione. Darsi alla danza in maniera totalizzante ha significato non cedere alla sconforto e non cambiare strada quando ogni indizio consigliava di abbandonarla. Siamo esseri umani: abbiamo alti e bassi. Per resistere ai secondi mi sono dovuto dare un’impostazione mentale. Nel mio mestiere la cura del corpo è fondamentale, ma senza la testa non vai da nessuna parte».

Cosa c’era nella sua testa da bambino? «Un sogno. Imitavo i passi di danza che vedevo nei varietà televisivi e sognavo di replicarli, di studiare e di iscrivermi a una vera e propria scuola. Nella villetta a due piani con orto e giardino di Trino Vercellese non trascorreva giorno senza che lo chiedessi come il più bello dei regali. I miei titubavano. Sospettavano fosse un capriccio e non un vero desiderio. D’altra parte tra una riunione ai boy scout, una lezione di pianoforte e una di nuoto, le mie giornate erano già abbastanza piene».

La prima vera prova? «Al cinema Orsa di Trino, per un saggio scolastico. Avevo preparato per settimane quel momento e una volta in scena, a metà esibizione, persi la scarpetta. Volò via. Avevo sette anni. Nei miei ricordi, come in una canzone della Nannini, è una scena al rallentatore. Rimasi paralizzato. In preda al terrore e a un panico che non mi permettevano di proseguire. Mi sembrò che il mondo all’improvviso fosse finito. Un sentimento che chi danza impara a conoscere presto. Si cade spesso, si sbaglia, si compie un errore. Chi fa il mio mestiere, nel tempo, impara soprattutto una cosa».

Quale? «Che non esiste caduta dalla quale non ci si possa rialzare. Ti confronti con l’errore fin dall’inizio e capisci in fretta che in quest’arte ogni aspetto è dominato dalla precarietà e che tutto può finire da un momento all’altro. C’è qualcosa che ci abbraccia e che va oltre la passione e il talento».

Cosa? «Il caso. Provi per mesi in sala ballo e poi all’improvviso inciampi. Una caduta può cambiare il corso di una carriera. Ci vuole umiltà, senso del brivido, capacità di sopportare la solitudine. La danza ti porta a migliorare corpo e spirito. Regala sogni e magia. Ma come per tutto esiste un prezzo». Quanto è stato alto quello della solitudine? «La solitudine è stata una grande compagna di viaggio. Mi ci sono trovato immerso e ho dovuto farci i conti.

Per indole sono una persona abbastanza solitaria, ma all’inizio, quando viaggiavo per assolvere impegni molto difficili davanti ai quali mi sentivo inadeguato, doverli affrontare da solo fu dura. Poi, avrò avuto circa ventisette anni, è cambiato tutto e ho iniziato ad assaporare la solitudine per quel che è: non più un limite, ma una conquista. Una forma di libertà. Un lasciapassare per la concentrazione assoluta. Potevo girare per le città, declinare le giornate con i miei tempi, lasciare una valigia sfatta per settimane senza che nessuno potesse dirmi: “Roberto, metti in ordine”». È stato un bene? «Forse una necessità.

Dopo due giorni, in qualunque posto mi trovi, genero un caos drammatico. Maglioni accatastati sulle poltrone, pantaloni per terra, piatti nel lavabo. Angoli di vero e proprio imbarazzo». È sempre stato così? «Che io ricordi, più o meno sì. Dai 12 anni ho sempre vissuto da solo e non ho memoria di una stanza veramente ordinata. La prima da single la affittò mia madre a Milano. Da una signora anziana con la quale il dialogo era quasi inesistente. Quando non mangiavo alla mensa della Scala, scaldavo le cose che mia madre mi aveva preparato per superare la settimana».



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