Giampiero Galeazzi chi é? Età, moglie, carriera, figli, canottaggio, nipoti, funerali, malattia e causa morte



Ho visto un re. Anzi, il suo giullare. Quello che, per far divertire il sovrano, le inventava di ogni. Apparentemente sussiegoso e servile. In realtà velenoso e corrosivo. Astutamente volpino e quindi capace di strappare una risata a chi, in realtà, avrebbe dovuto incazzarsi di brutto semmai avesse compreso lo sfottò. Non accadeva. Il Potere, padrone delle nuvole che sono impalpabili, annulla ogni accenno di autocritica. E lui si divertiva un mondo. L’importante era che a capire fossero coloro che vivevano fuori dal Palazzo. Gli umili, gli analfabeti, gli affamati, i pezzenti.
Il popolo del giullare. Il suo popolo.



Lui, Giampiero Galeazzi, e quella banda di pazzi con la quale, specialmente nel corso dei mitici e craxiani anni Ottanta, ebbi sovente a condividere umori, onori, e oneri. Tutti un poco contaminati dal “virus” inguaribile di Beppe Viola, il quale ci aveva lasciati basiti senza manco lo straccio di un preavviso come saluto, viaggiavamo consapevoli in direzione ostinata e contraria rispetto a quelli che lo sport era cronaca e statistica, descrizione asettica e trionfalismo retorico. Una faticaccia, ma anche un gran godimento. Galeazzi guidava quella truppa brancaleonesca della quale facevano parte Vincenzo Mollica, Gianni Mura, Emiliano Mondonico, Giuseppe e Carmine Abbagnale e, talvolta, anche io.

Non l’ho mai chiamato “bisteccone” Era Giampi e basta, anche se il finale di ciascuna giornata era definito dalla frase «Mo annamo a magna». Era un invito, anzi un ordine, non al nutrirsi ma alla crapula di stretta osservanza latina sulla falsariga della “Grande abbuffata” di Marco Ferreri Ne usciva indenne soltanto lui. In un ristorante di Puebla, in Messico, dove eravamo per seguire l’Italia ai Mondiali del 1986, tentai di tenergli testa tra portate improponibili, tanto erano solforose e infernali. Mi ammalai al punto che, giorni dopo, prima della partita con la Corea del Sud, alzai bandiera bianca e dovetti tornare in Italia mezzo intossicato. «Aliò, manco reggi il semolino», mi disse, mentre entravo nell’ambulanza che mi avrebbe portato all’aeroporto di Città del Messico. Lo mandai a quel paese.

Gli amori di Giampiero Galeazzi

Giampiero è sposato con Laura, da cui ha avuto Gianluca (1975) e Susanna (1978), entrambi giornalisti. È nonno di Greta (2017), figlia della secondogenita.

La carriera di Giampiero Galeazzi

Comincia la sua carriera in RAI negli anni Settanta come cronista e giornalista sportivo, dapprima in radio poi in televisione. Tra i suoi maestri ricorda Enrico AmeriSandro Ciotti e Nando Martellini.

Figlia

Ho sempre amato scrivere. Ed è sicuramente la migliore promessa per iniziare a fare il giornalista“, in una sua recente intervista aveva confessato così la sua passione innata per la scrittura e spiegando al contempo il perché della scelta intrapresa. Inoltre fu proprio Susanna a raccontare il suo punto di vista su un’ipotetica collaborazione lavorativa con il padre. Affermando in tal modo come, nonostante l’affetto e l’immensa stima che nutre nei suoi confronti, preferisca però maturare il più possibile dal punto di visto professionale prima di affiancarlo in qualsivoglia impresa.

In cima alla hit parade di Giampiero Galeazzi c’era «Il mio canto libero». Quello di Lucio Battisti e anche il suo, che dell’individualismo come unicità e autodeterminazione ha fatto cifra stilistica per tutta la vita, persona e personaggio mai imbrigliati in schemi dettati da qualcun altro ma sempre ispirato dalla propria innata capacità di tirar fuori colpi di scena e di genio, umano e professionale.

La sua carriera giornalistica ne è stata specchio perfetto: laureato in Economia con specializzazione in statistica, un passaggio nell’ufficio marketing e pubblicità della Fiat a Torino, il padre Rino lo vedeva già alla Doxa ma lui puntava la Rai, dove entrò nel 1975 portando bigliettini con le notizie ai tg radio della redazione sportiva, e Gilberto Evangelisti gli appioppò il soprannome leggendario, “Bisteccone”. «Ma dove vai, là dentro sono tutti raccomandati», scuoteva la testa papà. Gli è tornata in mente quella boutade, a Galeazzi, quando alla fine dell’avventura alla conduzione di Novantesimo minuto si è ritrovato «senza più una sedia, una scrivania, un grado: niente, tabula rasa. Alla Rai ti perdonano tutto tranne che il successo».

Vedremo come lo omaggerà la tv di Stato (ieri per Italia-Svizzera neanche un minuto di silenzio: vergogna), mai tradita nonostante Mediaset gli avesse offerto una barca di soldi, ora che Giampiero ha chiuso il microfono e se n’è andato.

Aveva 75 anni, l’ultimo periodo della sua vita è stato afflitto da tanti acciacchi fra diabete, problemi ai reni e alle ginocchia. Nel 2018 Mara Venier, sua compagna di pomeriggi indimenticabili a Domenica In, lo volle di nuovo in trasmissione dove lui si presentò provato, sopra una sedia a rotelle: «Sui social m’hanno già fatto il funerale», spiegò alla Gazzetta, «ma io sono ancora vivo, eh. Ho sbagliato a presentarmi in quel modo. La verità è che sono reduce da un’operazione al ginocchio sinistro, mi muovo con le stampelle. Lo studio era pieno di cavi e, per non rischiare, un assistente ha pensato bene di mettermi su una carrozzina»

LO SCUDETTO DELLA LAZIO

Fiaccato nel corpo ma mai nello spirito, Galeazzi si era goduto le Notti Magiche dello sport italiano di questo schizofrenico 2021 raccontando all’amico Giancarlo Dotto di essersi esaltato più per gli ori di Jacobs e Tortu a Tokyo che per il successo europeo dell’Italia del calcio In Inghilterra, riservando un pensiero per Giovanni Malagò, presidente del Coni fra i più euforici della spedizione: «C’ha un culo grande così, ma se lo merita tutto». Nato a Roma il 18 maggio 1946, i genitori di Galeazzi erano originari del Lago Maggiore e lui non ha mai nascosto di tifare Lazio: «Mio padre mi portava a vedere solo i biancocelesti, mentre a scuola erano tutti romanisti».

Che tripudio lo scudetto del 2000. Giampiero è al Foro Italico, sta facendo la diretta tv di Kuerten-Norman per gli Internazionali di Roma: «Una noia. Quel giorno la Juve èa Perugia, all’Olimpico c’è Lazio-Cremonese. Quando me dicono dello scudetto mollo la postazione e l’ultimo game va in silenzio. Corro allo stadio con cameraman e microfono, so’ l’unico giornalista, gli altri tutti a Perugia: senza di me, al Tg1 delle 20 avrebbero dovuto mandare un western al posto del servizio. Un colpo storico, mi salvo per questo».

ABBAGNALE E SEUL Ma prima del calcio, prima del tennis («Il Villaggio del Foro Italico l’ho inventato io»), il vero amore di Giampiero è stato il canottaggio, passaggio obbligato dopo gli inizi sulla canoa perché già da giovane era troppo alto e grosso. Suo padre è stato campione agli Europei nel 1932 (oro nel due senza), lui ha messo in bacheca il titolo italiano nel singolo nel 1967 (che gli valse pure la medaglia di bronzo al valore atletico) e nel doppio con Giuliano Spingardi nel 1968. Quell’anno partecipò anche alle selezioni per le Olimpiadi del 1968 a Città del Messico («esclusi per logiche di Palazzo», sottolinea nella sua autobiografia), tanto che quando qualcuno se la tirava e lo irritava, ricorda Enrico Mentana, lui lo rimetteva al suo posto: «Per te mica l’hanno suonato l’Inno di Mameli». Giampiero raccontava il costume, ha fatto costume. «Andiamo a vincere» è uno slogan-manifesto fulminante, perfetto per tutte le latitudini. Non c’è italiano che non associ la sua voce ai trionfi dei fratelli Abbagnale (li ha “creati” lui, assieme a Peppiniello DiCapua), a quelli di Antonio Rossi e Beniamino Bonomi, di Josefa Idem, telecronache di culto che sono un mix di competenza, colpo d’occhio, empatia, trasporto. Fateci caso, qualcuno li ha impostati pure come suoneria del telefonino, perché Giampiero mette il buonumore. A Libero, che lo ha intervistato nel maggio 2016, per i suoi 70 anni, spiegava che «era come se fossi in barca con loro, quella degli Abbagnale diventava un “tre con”. Era un modo per salire anche io sul podio. Poi, dopo, collassavo». E dire che quella telecronaca alle Olimpiadi del 1988 poteva anche non esistere: «In Rai avevano proclamato sciopero generale. Quando l’ho saputo ero a mangiare il solito tortellino, a Seul, e pensai: ci siamo fatti migliaia di chilometri per venire a ubriacarci insieme a mignotte asiatiche e soldati americani. Tornai in albergo alle 6 del mattino e scoprii che mi cercavano, c’avevo du’ chili de bigliettini alla porta: sciopero rientrato. Nemmeno il tempo di lavarmi, saltai su un taxi e mi scordai anche il badge per entrare allo Stadio Olimpico. Ma quella era la mia giornata, mi fecero entrare lo stesso. Arrivai in postazione senza manco il foglio partenti ma tanto me li ricordavo a memoria».

Improvvisare senza essere improvvisati, Giampiero ha avuto maestri assoluti come Ciotti, Ameri, Moretti dai quali ha assorbito il mestiere. È lampante quando il Napoli di Maradona vince il primo scudetto: «Prima dellafine della partita me fo chiude’ negli spogliatoi da Carmando, il massaggiatore. Dopo la partita fori ce stavano 200 giornalisti da tutto il mondo, Sudamerica, Giappone, Congo Belga: ma dentro c’ero solo io. La genialata fu far fare le interviste a Diego». Grande amico di «quel tirchio di Platini», con cui metteva in piedi arroventate partite di tennis («Non pagava mai un campo, quando vinceva scriveva il risultato sulle magliette e me le dava per pro-memoria»), Giampiero è stato uno dei giornalisti più apprezzati dall’Avvocato Agnelli («Cenava con un pugno di riso in bianco e un bicchier d’acqua»), il suo carisma era perfino superato dalla sua autoironia, quando sghignazzava dei proverbiali sfondoni tipo «il rovescio de Lendl è ’na bomba al nepal. Ma una volta me usci’ pure “roulotte russa”».

LE GAFFE Il periodo negli Anni 90 a Domenica In con Mara Venier è stato pietra miliare dell’intrattenimento, anche se dopo oltre trent’anni di servizi sportivi sul campo, anzi sui campi (nel 1986 fu l’inviato Rai all’incontro fra Gorbaciov e Reagan a Reykjavic e nel 2003 è stato l’ultimo a intervistare Marco Pantani),era scettico: «Univo sport e show ma ho sempre saputo dividere i momenti. Certo, Mara m’ha rovinato, non ero un mangione ma me toccava fa’ pranzo tre o quattro volte al giorno: però è stato un successo. E giù con le invidie, interrogazioni parlamentari. Mia moglie e i miei figli non me salutavano più, “che cazzo stai afa’?”, me vestivo da Batman, da Tarzan, da coniglio…». Eppure il successo e l’affetto decretati dal pubblico sono stati ecumenici, Giampiero è stato il più imitato ma resta inimitabile, qualche telecronista sportivo prova a scimmiottarlo ma la stortura è palese. Mentre Nicola Savino ha sbancato Zelig e svoltato con i suoi interventi in diretta: «Grazie a me è diventato miliardario. Me fa piega’, ma ha messo il santino con la mio foto in camera». Andiamo a vincere, Giampiero



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